L’11 Dicembre 2001, la Cina faceva il suo ingresso nella World Trade Organization. Il suo PIL, la sua popolazione e la sua influenza erano in crescita esponenziale.
Tutto faceva pensare che il ventunesimo secolo sarebbe stato dominato dalla Cina. Oggi, però, il futuro si prospetta ben diverso per il dragone, che sembra non essersi ancora ripreso dalla pandemia.
Una nazione vecchia e senza futuro
Se non è solo retorica dire che il futuro di un paese sta nei giovani, la Cina ha ben poco da sperare. Anzitutto perché i giovani sono sempre meno: nel 2050 in Cina ci saranno 440 milioni di anziani e i giovani cinesi sono più restii che mai a fare figli.

Nonostante gli incentivi governativi, infatti, la crescita della popolazione è diminuita per la prima volta dopo 60 anni (850 mila nascite in meno rispetto al 2021) e il tasso di natalità si attesta a 6,87 figli per mille abitanti (il più basso dal 1949 a oggi). Le ragioni della denatalità sono molto semplici, ed incredibilmente simili a quelle dei paesi occidentali.
I giovani cinesi preferiscono sposarsi più tardi, conseguono livelli elevati di istruzione, si devono occupare dei genitori anziani (la maggior parte di loro è figlio unico) e soprattutto non vedono prospettive nel mondo del lavoro. Un altro dato critico, infatti, è quello della disoccupazione giovanile, che ha toccato quest’anno quota 21,3%. E il futuro non prospetta niente di buono: l’anno prossimo, infatti, 12 milioni di nuovi laureati entreranno in un mondo del lavoro già saturo.
Le previsioni sono così pessime che il governo cinese ha smesso di pubblicare i dati sulla disoccupazione giovanile. La crisi del sogno di una grande nazione che si risveglia, di un’economia destinata a padroneggiare il mondo, entra irrimediabilmente in crisi.

Far studiare un giovane dalle elementari alla laurea, per una famiglia cinese, costa l’equivalente di 87mila dollari, il test di ammissione all’università, il gaokao, è tra i più difficili e stressanti al mondo, e oggi tutti i sacrifici sembrano essere vani. Persino Xi Jinping è arrivato a dire ai giovani “prima trovatevi un lavoro, poi scegliete una carriera”.
E’ un cambiamento epocale. Il secolo 1949-2049, nell’ottica cinese, dev’essere il secolo della riscossa, dopo il Bǎinián Guóchǐ, il “secolo della vergogna” (1839-1949, in cui la Cina venne sottomessa dai britannici con le guerre dell’oppio e dal Giappone in Manciuria). Questa retorica era culminata 40 anni fa, quando Deng Xiaoping aveva annunciato la nascita del “socialismo con caratteri cinesi di mercato”, aprendo di fatto la Cina al mondo. Oggi, l’espansione è finita, e con essa il sogno di riscossa. I giovani, quindi, sono disillusi e arrabbiati verso un mondo ipercompetitivo che ora non sa dove collocarli e che, dopo avergli promesso un futuro radioso, li nasconde.
Un sintomo di questo malessere è il movimento Bai Lan, composto di giovani che si rifiutano in ogni modo di sottostare alle regole del sistema e “lasciano che la nave affondi” (facilmente comparabile al quiet quitting e alle great resignations dell’economia statunitense, anch’essi frutto della crisi di un sogno).
Il peggio è che i giovani cinesi sanno benissimo che le cose andranno ancora peggio per i loro figli: la scarsità di giovani e la decrescita della popolazione, oltre all’aumento del tasso d’istruzione, porteranno alla crescita del costo del lavoro, che significa praticamente uccidere un’economia che sui bassi costi del lavoro aveva costruito il suo impero.

La nuova “silent generation” si esprime sui social, nei pochi spazi liberi concessi, è figlia di una grande generazione che ha reso il paese glorioso, ma non sa continuare questo miracolo. Vive in tempi di incertezza e, progressivamente, sta venendo abbandonata dal governo, convinto che ormai, per loro, non ci sia più nulla da fare.
I problemi dell’economia cinese
I problemi dell’economia cinese, però, non iniziano e non finiscono di certo con i giovani, ma sono ben più profondi.
Anzitutto il paese, al contrario delle economie occidentali flagellate dall’inflazione, vive un momento di grande deflazione, il che significa che si consuma poco e che l’economia è più vulnerabile. Ad aumentare la vulnerabilità, si è aggiunta anche la diminuzione della crescita, che continua ad essere sempre sotto le previsioni.
Per questo, proprio come ogni economia debole che si rispetti, la Cina accumula debiti su debiti: se nel 1997 il rapporto deficit/pil era del 20%, nel 2022 è arrivato a quota 76,9%, cosa particolarmente grave per un paese internazionalmente noto come creditore.
Come se non bastasse, a tutto questo si è aggiunta anche la crisi del settore immobiliare, con il crack del gigante Evergrande, che godeva peraltro di lauti finanziamenti statali. L’enorme indebitamento di Evergrande, che ha messo in pericolo anche il sistema bancario, non è però altro che la punta dell’iceberg: il miracolo cinese non è mai stato così a rischio.

Il piano di “rilancio” varato dal governo si chiama Made in China 2025 e consiste in una serie di investimenti nell’ordine del trilione di dollari diretti all’economia interna e in particolare al settore tecnologico, in cui la Cina spera di superare i “vicini” asiatici.
La Cina non vuole più essere la fabbrica del mondo, vuole diminuire l’enorme divario tra città e campagna e vuole soprattutto stabilizzarsi come economia, senza dipendere unicamente dall’export.
È l’inizio del decoupling dall’Occidente, fondamentale soprattutto per stabilizzare l’impero: investire nell’economia domestica per renderla più solida e per ridurre le disuguaglianze, nell’interesse della tenuta della dittatura.
Di fatto, lo stato ha bisogno di indebitarsi per varare misure di helicopter money nella speranza che la macchina riparta con una piccola spinta.
Dopo l’apertura al mondo e l’instaurazione di un modello pseudo-capitalistico, quantomeno dalle ZES in poi, la Cina sente insomma tutte le ripercussioni negative di un mercato libero. E di certo, in questo panorama, l’ampia compromissione economica e geopolitica all’estero non aiuta.
La crisi della Via della seta
Quando la Cina varò il piano della nuova Via della seta, si trovava in una situazione economica particolarmente florida. Proprio per questo l’idea di investire il plusvalore all’estero, evitando la saturazione del mercato, sembrava un ottimo modo di alimentare la crescita economica e di accrescere il potere politico della Cina sul mondo.

Ora però le cose non vanno come sperato, e non solo perché l’economia domestica non è più la stessa. A essere in crisi, infatti, è il progetto stesso della Via della seta. Molti paesi abbandonano (soprattutto i più filo-occidentali, come Italia e Portogallo) e per di più né le aziende né i paesi hanno intenzione di rischiare ancora.
Le aziende sono rimaste “scottate” da molti prestiti mai riscossi ( si pensi allo Sri Lanka, al Pakistan, allo Zambia o al Suriname) e i paesi hanno incominciato a sentire la puzza della truffa dietro i soldi offerti dalla Cina.
Da un lato grava il rischio di finire in una trappola del debito (come è accaduto appunto in Zambia), e di alimentare ancor di più la corruzione nel paese, dall’altro sono i precedenti di progetti difettosi o mai completati a spaventare i paesi.
L’esempio più emblematico è forse quello della ferrovia Mombasa-Nairobi-Malaba, un progetto gigantesco che doveva collegare l’India, il Kenya e l’Uganda.
I lavori, iniziati nel 2014, sono stati finanziati al 90% dalla Cina (oltre 3 miliardi di dollari) e al 10% dal governo kenyota, con un contratto tanto asimmetrico da essere definito “illegale”dall’Alta Corte del Kenya.
Il tratto da Mombasa a Nairobi è stato inaugurato già nel 2017, sotto la guida della CCCC (China Communications Construction Company), che si è aggiudicata l’opera senza una gara d’appalto.
Poi, sono iniziati i lavori del tratto tra Kenya e Uganda, ma quando il governo kenyota ha avuto difficoltà a ripagare il debito la Cina ha staccato la spina al progetto.
Oggi, quindi, il Kenya si ritrova nelle mani un debito ingente e un’opera che termina letteralmente nel nulla: i binari si fermano nel cuore della Rift Valley, a 273km dal confine con l’Uganda.

Tutto questo non significa che la Cina sia destinata al collasso o che questo non possa essere comunque il secolo cinese, ma che la fase di espansione abbia subito una battuta d’arresto.
Questo è il momento della stabilizzazione dell’impero, della riflessione e del consolidamento degli obiettivi raggiunti. Si tratta di un imperativo che è nell’agenda di Pechino da anni, ma ottenerlo non sembra così facile, considerate le proporzioni delle “conquiste” e la rapidità con cui sono state ottenute.
La vera sfida, insomma, inizia ora: riuscirà la Cina a consolidarsi nella posizione in cui è, costruendo un fronte geopolitico compatto e un’economia solida? Riusciranno i giovani cinesi a ritrovare la speranza? Tutto è nelle mani di un solo uomo: Xi.
A cura di Andrea Potossi
Referenze:
https://www.piie.com/blogs/realtime-economics/how-serious-chinas-economic-slowdown
https://tg24.sky.it/economia/2023/07/17/cina-pil-crescita
https://www.ilpost.it/2023/08/23/economia-cina-rallentamento-deflazione/