Ottant’anni dopo, un orrore che non si può dimenticare...
Era il 16 ottobre del 1943 quando, alle prime luci del mattino, gli ebrei del ghetto di Roma furono “rastrellati” casa per casa, portati in strada e deportati.
1259 persone furono strappate dalle loro case, dalla loro vita, e per quasi tutti, si chiusero le porte dei campi di concentramento. Da lì solo in 16 torneranno nella Capitale.

Il rastrellamento
Il rastrellamento del ghetto di Roma fu una retata effettuata da truppe tedesche appartenenti alle SS o alla polizia d’ordine (“Ordnungspolizei”), con la collaborazione dei funzionari del regime fascista della Repubblica Sociale Italiana.
Avvenuto tra le ore 05:30 e le ore 14:00 di sabato 16 ottobre 1943, ricordato come il “sabato nero”, il rastrellamento portò all’arresto di 1259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica romana.
Gli arresti vennero attuati principalmente in via del Portico d’Ottavia, nei pressi del ghetto ebraico della Capitale.

Dopo l’8 settembre 1943, giorno del proclama dell’armistizio di Badoglio che sancì la resa incondizionata dell’Italia agli Alleati, il destino degli ebrei nel Paese era più che incerto. Ma i romani erano riusciti a soddisfare la richiesta del colonnello delle SS Kappler, una consegna di 50 chili d’oro, che avrebbe dovuto mettere in salvo gli ebrei. Nonostante questo, le SS avevano già sequestrato gli elenchi della Comunità ebraica, saccheggiato templi, biblioteche e preannunciando una devastazione vera e propria.
All’alba di sabato 16 ottobre, giorno festivo per gli ebrei, scelto appositamente per sorprenderne il più possibile, 365 uomini della polizia tedesca effettuarono il rastrellamento in maniera mirata agli appartenenti alla comunità ebraica romana.
A capo dell’operazione c’era Theodor Dannecker, un giovane ufficiale nazista collaboratore di Eichmann già responsabile della deportazione degli ebrei in Francia, Tracia e Macedonia. I deportati finirono prima al campo di concentramento italiano di Fossoli, per poi essere trasferiti ad Auschwitz.

L’ ordine proveniente da Hitler era di arrestare ottomila ebrei, dato che la comunità ebraica romana all’epoca contava circa diecimila persone. L’operazione, dal punto di vista del Führer, fu infatti considerata un flop, tant’è che lo stesso Dannecker fu processato dal regime.
Va poi aggiunto che nonostante non abbiano partecipato direttamente all’operazione, i fascisti si macchiarono in seguito di un crimine ben peggiore: denunciarono la presenza di ebrei al fine di ottenere denaro. 5000 lire era il prezzo per un uomo, 2000 per le donne e 1500 per i bambini.
La Santa Sede venne messa a conoscenza del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma dalla principessa Enza Pignatelli che assistette in parte alla retata e subito si recò in Vaticano dove ebbe un colloquio con Pio XII che decise di incaricare il cardinale Segretario di Stato Luigi Maglione di informarsi e occuparsi della questione. L’iniziativa, però, ufficialmente, si concretizzò in una semplice protesta formale rivolta all’ambasciatore tedesco presso il Vaticano, Ernst von Weizsäcker.
Al di là di questo e di un articolo apparso sull’Osservatore Romano mirante a giustificare il comportamento della Santa Sede, (sempre in modo ufficiale) Pio XII decise di mantenere un riservato silenzio sul rastrellamento.

L’ evento “raccontato” da Guccini
Vorrei dare una lettura di quello che fu uno degli eventi più tragici della storia italiana attraverso le parole di Francesco Guccini che, nei primi anni ’60, scrisse il brano “Auschwitz”.
Una canzone di profonda denuncia nella quale il cantautore modenese affronta il delicato tema dell’Olocausto, permettendo all’ascoltatore di toccare con mano la tragedia che si consumò a danno degli ebrei di tutta Europa.

La stesura del brano fu ispirata dalla lettura del saggio “Il flagello della svastica” di Edward Russell e da “Tu passerai per il camino”, romanzo autobiografico di Vincenzo Pappalettera, in cui l’autore racconta la sua permanenza nel campo di concentramento di Mauthausen.
La canzone racconta, con la voce di un bambino deceduto nell’omonimo campo di concentramento, gli orrori della guerra e la disumanità della Shoah.
“Son morto con altri cento, son morto ch’ ero bambino,
passato per il camino e adesso sono nel vento e adesso sono nel vento…”
Il massacro viene raccontato in maniera del tutto impersonale, come se fosse un evento normale, routinario, evidenziando la “banalità” di quel male che Hannah Arendt descrisse nel suo celeberrimo libro del 1964. Un male che ha spento l’innocenza di tante anime innocenti, “colpevoli” solo di essere ebrei.
“Ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno e adesso sono nel vento, adesso sono nel vento…
Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio:
è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento, a sorridere qui nel vento…
Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello
eppure, siamo a milioni in polvere qui nel vento, in polvere qui nel vento…
Ancora tuona il cannone, ancora non è contento
di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento e ancora ci porta il vento…”
Il silenzio, la neve, l’ambiguità dei fumi del camino che risalgono il cielo invernale, tutto il paesaggio descritto, ricorda quiete scene di familiarità e calma domestica.
L’immagine di un fumo che sale in una fredda giornata invernale allude a persone scomparse celando un segreto agghiacciante: ora, quelle persone mai menzionate direttamente, si ritrovano sparse nel vento gelido dell’inverno.

Le accuse e le domande presenti nel brano sono rivolte all’umanità intera: tutta tristemente e ugualmente colpevole di ogni forma di male verso un proprio simile.
La gravità di queste azioni diviene più brutale, dal momento che tutti gli uomini continuano a commettere malvagità nonostante un passato di errori.
“Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà e il vento si poserà e il vento si poserà…”
Il vento, elemento naturale presente in quasi tutto il testo, non è leggiadro e spensierato come appare normalmente.
Quella che soffia è una folata che sembra voler ammonire l’uomo, unico responsabile di tutti quei morti: i soffi impetuosi del gelido vento invernale gettano sull’umanità tutte le sue colpe per l’accaduto.
L’ accusa è più dura, in questo caso, poiché proviene dalla voce innocente di un bimbo senza colpe, soffocato nella sua purezza.

L’ ultima strofa pone ancora un quesito senza risposta; tuttavia, è un verso che, considerando il crudo realismo in cui il testo di Auschwitz è imbevuto, predispone a una certa apertura dell’autore.
Guccini è un pessimista, un realista, ma lascia un barlume di speranza all’uomo: si auspica che, dopo tanti orrori e malvagità, egli possa ancora imparare a “vivere senza ammazzare”…
A cura di Lorenzo Perticarà
Fonti:
Auschwitz Testo Francesco Guccini (angolotesti.it)
Il 16 ottobre del 1943 il rastrellamento del ghetto di Roma: ecco cosa è successo (msn.com)
Il 16 ottobre di 80 anni fa il rastrellamento del Ghetto di Roma (rainews.it)
Francesco Guccini, Auschwitz: testo e significato della canzone (notiziemusica.it)
16 ottobre 1943: la notte del ghetto di Roma, la ferita più profonda della storia degli ebrei in Italia – La Stampa
Auschwitz, Guccini: la voce di un bambino racconta l’orrore dell’Olocausto (metropolitanmagazine.it)
Il rastrellamento degli ebrei del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 (fattiperlastoria.it)