Intervista a Guido Castelli

La carriera politica di Guido Castelli inizia ad Ascoli Piceno, nei primi anni Ottanta, quando si iscrive al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI di cui diventa Segretario provinciale nel 1985 e successivamente dirigente nazionale. Dal 2003 al 2008 è Presidente provinciale di Alleanza Nazionale di Ascoli Piceno. Nel luglio 2019 aderisce a Fratelli d’Italia.

Tra il 1995 e il 2001 ricopre il ruolo di consigliere provinciale ad Ascoli Piceno. Alle elezioni regionali nelle Marche del 2000 è eletto consigliere regionale. Alle elezioni amministrative del 2009 viene eletto sindaco di Ascoli Piceno, carica alla quale viene riconfermato nel 2014.

Alle elezioni regionali del 2020, con la vittoria di Francesco Acquaroli, Castelli diventa assessore con deleghe a Bilancio, Finanze, Ricostruzione, Reti regionali di trasporto, Enti locali, Aree di crisi industriali. Il 6 ottobre 2021 viene nominato componente del Comitato europeo delle regioni come membro permanente della delegazione italiana. Alle elezioni politiche del 25 settembre 2022 viene eletto senatore e il 3 gennaio 2023 viene nominato dal governo Meloni come commissario straordinario alla ricostruzione dei territori nei comuni delle Regioni di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria interessati dall’evento sismico del 24 agosto 2016.

Sen. Castelli, lo scorso gennaio è stato approvato al Senato il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata e siamo in attesa del pronunciamento della Camera. Ci sono state molte proteste da parte dell’opposizione che accusa la maggioranza di voler “spaccare” il paese. In base alla sua esperienza, ritiene che questa riforma favorirebbe una migliore gestione dell’apparato pubblico? Se sì, in che modo?

La riforma, va ricordato, altro non è che l’attuazione di un pezzo di Costituzione. Personalmente, ho sempre considerato strumentale certe considerazioni che andavano nel senso di ritenere questa attuazione come una sorta di danno al paese. Detto questo, è importante perché parliamo dell’attuazione del titolo V che prevede proprio l’autonomia differenziata.  

Ovviamente, quando si fa “ingegneria istituzionale” è sempre di massima utilità valutare le implicazioni vere e concrete delle riforme. Da questo punto di vista, l’autonomia differenziata è un cantiere che potrà essere rivisto e migliorato ma che si propone come un esercizio di prerogative costituzionali che le regioni dovranno essere in grado di esercitare. Per come abbiamo costruito questo provvedimento, sono stati inseriti delle garanzie atte a contenere i rischi di una dilatazione delle differenze territoriali.

Quali sono queste garanzie?

Innanzitutto, i Livelli Essenziali delle Prestazioni che codificano i “nastri di partenza” dello sviluppo delle attività regionali affinché tutti i cittadini italiani siano messi nelle stesse condizioni. Chiaramente, l’autonomia differenziata richiede per la completa espressione delle sue potenzialità positive una condizione economica favorevole, dato che le grandi riforme si realizzano meglio nei cicli della spesa espansivi, mentre questo è un momento di difficoltà in tal senso. Sarà quindi necessaria un’applicazione graduale e mitigata della riforma. Inoltre, sarà necessario che ci sia un maggiore coinvolgimento dei comuni e delle regioni, dato che il modello dell’autonomia differenziata funziona se le amministrazioni locali e regionali sapranno a loro volta essere capaci di rafforzare tutta la filiera territoriale.

Si sta parlando di abolire il limite dei due mandati per sindaci e governatori di regione. Anche qui, la polemica sta nel fatto che l’opposizione accusa la maggioranza di volersi assicurare la tenuta dei propri sindaci e governatori attualmente in carica, soprattutto al nord. Lei è d’accordo o meno con questa riforma?

Il tema è sensibile dato che non rientra nel patto di governo originario il quale, ovviamente, ne condiziona fortemente le politiche. Questa riforma mancava e si tratta del classico tipo di proposta alla quale darà risposta il Parlamento.

Attualmente, il parlamento ha detto no e ci rimettiamo a questa volontà. Da questo punto di vista, secondo me, è utile una limitazione dei mandati per evitare fenomeni di concentrazione di potere e di funzioni, sia per i sindaci che per i governatori di regione. Quindi, personalmente sono allineato con la posizione di chi ha già bocciato questa proposta.

Con l’erogazione dei fondi del PNRR è emersa l’incapacità di una parte consistente della pubblica amministrazione di utilizzare al meglio le proprie risorse generando degli sprechi. Secondo lei, quali sono i limiti della nostra pubblica amministrazione e quali potrebbero essere misure di breve e medio-lungo periodo volte a superarli?

Più che sprecare i fondi la pubblica amministrazione non riesce a spenderli, e questa è una differenza sostanziale. Per anni, dalla crisi che ha afflitto il sistema Italia a partire dalla dal 2011 fino al Covid, abbiamo assistito ad una riduzione della capacità tecnico-amministrativa della PA, rispetto alla quale il vincolo esterno europeo ha introdotto un meccanismo per il quale viene, in sostanza, premiato chi non spende, al fine di ridurre le spese. Tutto il nostro sistema, anche quello territoriale, si è conformato a questa frugalità che ha dominato tutto lo scenario pre-Covid. A seguito di questa fase, il vincolo esterno è diventato esattamente opposto: si è archiviato il “non spendete” a favore dello “spendete in fretta”.

Quindi, è evidente che la macchina amministrativa, dopo anni, non aveva più le caratteristiche per attuare questi progetti di spesa. A tal proposito, l’apparato normativo è stato riorientato a tal fine dato che la spesa, alla quale spesso si associano dei connotati negativi, è il principale strumento di sviluppo e redistribuzione. Da questo punto di vista la risposta del legislatore sarà quella di introdurre delle deroghe nei principi della spesa e dell’organizzazione della stessa e, inoltre, di introdurre un nuovo codice degli appalti orientato ai principi di risultato e buona fede che sarà il driver principale della spesa pubblica.

Detto questo, sarà necessario specializzare e remunerare adeguatamente anche i professionisti della pubblica amministrazione. Da anni siamo vittima di una logica pauperistica che ha ridotto gli stipendi della PA e abbiamo, da questo punto di vista, una concorrenza spietata da parte del settore privato che paga di più e che sottrae forza lavoro alla PA. Dunque, per rafforzare la PA sono necessarie anche delle politiche contrattuali che siano proporzionali a quelle che sono le caratteristiche del mercato delle professioni.

Da questo punto di vista, un sindaco che tipo di difficoltà ha nello spendere i fondi a disposizione?

Ad esempio, per quanto riguarda il cratere del sisma 2016 di cui mi occupo, il processo di spesa è stato molto buono. Con la struttura commissariale, abbiamo attivato dei servizi di assistenza ai comuni mettendo a disposizione proprio una task force di professionisti che stanno dando una mano nella gestione dei fondi. Un ulteriore problema è che il processo di spesa è reso complicato da un complesso apparato di regole, regolette e vincoli che spesso producono effetti inibitori della spesa. Dunque, il rafforzamento della PA passa anche dalla capacità del governo di stare vicino ai comuni con delle infrastrutture che li possono aiutare in tal senso. Da questo punto di vista, negli ultimi anni il “sistema dei comuni” ha lasciato sul campo decine e decine di professioni pubbliche che sarà complesso ricostruire. Ci vorrà del tempo.

Ad esempio?

Ad esempio, i geometri. Il geometra capo del comune è una figura che non appartiene ai luoghi comuni ma è una figura che da grande energia alla capacità di spesa delle amministrazioni. La PA, nell’ultimo decennio, ha ridotto di circa il 20% le proprie dotazioni e per ricostruirle, come detto, ci vorrà del tempo. Dunque, la capacità di spesa non dipende tanto da sindaci o assessori che, ovviamente, hanno tutto l’interesse a spendere dato che essa è tipicamente manageriale e d’organizzazione.

A cura di Lorenzo Perticarà

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