Censura, scandalo, ipocrisia.
Il moderno conservatorismo progressista si traveste da linguaggio inclusivo. Conduttori di programmi televisivi, giornalisti, personaggi pubblici, VIP, politici, esperti e persone comuni sono tutti soggetti alla dittatura del politically correct.
È arrivata l’ora del dibattito.
È arrivata l’ora di cambiare la realtà.
È arrivata l’ora di riprenderci la libertà di linguaggio.
Allo stato attuale, non si possono far vedere certe cose, o dirne altre, perché ritenute poco inclusive, se non addirittura offensive. La linea tra queste due caratteristiche si assottiglia sempre di più, è sempre più facile varcare questo confine, più cose o persone si includono nel discorso più sarà evidente che qualcosa o qualcuno è stato escluso e chi ascolta potrebbe indignarsi. Sebbene questa pratica celi le intenzioni più nobili, è un modello che rischia di appiattire i dibattiti, di mostrare i fatti solo da un punto di vista.
Il cosiddetto politically correct è un metodo comunicativo che diventa lesivo per la libertà di espressione che sia artistica, politica, comica o semplice conversazione;
O si cambia o si soccombe.
Negli anni ’50 la censura cancellava i corpi nudi e zittiva le voci alternative, lo sguardo possessivo del maschio era lo sguardo di tutti. Così come, all’epoca, il patriarcato costringeva a parlare la lingua del male gaze, oggi la censura del linguaggio costituisce la forma di violenza espressiva del moderno conservatorismo progressista. Negli Stati Uniti viene denunciata sempre più spesso la cultural appropriation, ma coloro che la denunciano, spesso, non appartengono a quella cultura, sono troppo spaventati dalla piega che potrebbe prendere un comportamento del genere da dimenticare quanti benefici ci siano nel condividere la propria cultura con altre persone.
Non respireremo questa aria viziata venduta come ossigeno.
Non continueremo a camminare sul filo del rasoio.
Scegliamo di tagliarci, sanguinare e uscirne più forti, più liberi.
Sveliamo insieme la violenza ideologica.
A cura di Birane Gueye, Silvia Caterina Minchella e Edoardo Blasco Sezanne