Iran senza scudi: la disfatta della sua deterrenza

Nelle prime ore del 13 giugno, con l’Operazione “Leone Nascente”, Israele ha scatenato una serie di attacchi che hanno danneggiato strutture militari e siti missilistici iraniani, distrutto cruciali depositi di gas e, soprattutto, sterminato gran parte dell’alta cerchia di funzionari attorno alla Guida Suprema Ali Khamanei.

È stato più di un attacco militare, è stato un colpo al cuore del programma trentennale di un sistema di deterrenza che sembrava formidabile ma che in poche ore Israele ha polverizzato. Una strategia fondata sull’accumulo di missili balistici, sullo sviluppo di un programma nucleare avanzato e sulla creazione di una rete di proxy regionali in grado di destabilizzare gli interessi dello Stato ebraico: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, milizie in Iraq e stretti legami con il regime di Assad in Siria. Alleanze che gli integralisti di Teheran sfruttavano come leve di potere.

Nell’ottobre 2023, infatti, la Repubblica Islamica era al suo apice. Esercitava un’influenza predominante su un’ampia fascia di territorio, dall’Iraq al Mediterraneo, costringendo anche i rivali vicini del Golfo (in particolare, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) alla sottomissione.

Gli attacchi del 7 ottobre sembravano, inizialmente, rafforzare ulteriormente l’Iran: il suo principale avversario regionale era improvvisamente coinvolto in un conflitto totalizzante. Di conseguenza, Teheran ha incoraggiato i suoi proxy alleati ad unirsi alla lotta contro Israele, creando così un fronte unito sotto la sua leadership. Se Hamas ha dato il via a un’escalation senza precedenti, il fuoco persistente dei razzi di Hezbollah ha costretto i civili ad abbandonare le città del Nord, e gli Houthi hanno esteso i loro attacchi al traffico marittimo commerciale nel Mar Rosso (costringendo anche l’intervento dirompente degli Stati Uniti).

Eppure, nel giro di pochi mesi, la struttura regionale dell’Iran è quasi crollata. Le offensive militari israeliane hanno annientato il Movimento di Resistenza Islamico a Gaza e decimato il Partito di Dio in Libano. Inoltre, è arrivata la sorprendente caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, nel dicembre 2024, la quale ha profondamente ferito la Repubblica Islamica, essendo la Siria la principale rotta di rifornimento di armi per Hezbollah e per i militanti palestinesi in Cisgiordania.

Di fronte a questi rovesci, il paese degli ayatollah avrebbe potuto scegliere di riorganizzarsi, ma invece, ha scelto di intensificare il conflitto, infliggendo ad Israele i due più grandi attacchi missilistici balistici mai lanciati, prima nell’aprile e poi nell’ottobre 2024. Con queste azioni, il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche sperava di mostrare la propria potenza militare e ristabilire la deterrenza, invece, anche grazie all’aiuto degli USA e di altri partner, le difese israeliane hanno intercettato quasi tutte le offese, evidenziando quindi i veri limiti delle capacità missilistiche iraniane.

Nonostante le sconfitte subite, ad inizio del 2025 i leader del regime sciita erano ben lontani dall’ammettere la sconfitta; ora, è tutta un’altra storia.

L’attacco statunitense del 21 giugno, infatti, ha letteralmente stravolto le regole del gioco. Trump, stancato dell’opzione diplomatica, ha scelto di impedire una possibile corsa iraniana al nucleare unendosi alla guerra e bombardando gli impianti di Fordow (tramite l’avanzata e unica tecnologia delle bombe bunker-buster), Natanz e Isfahan.

Ma la risposta dell’Iran non si è fatta attendere. A meno di 48 ore dall’attacco americano, Teheran ha colpito con dieci missili balistici la base militare di Al Udeid alle porte di Doha, in Qatar. La rappresaglia è stata limitata e, soprattutto, preannunciata, non causando così nessuna vittima né ferito.

Resta, di fatto, l’inequivocabile messaggio politico dell’operazione: “l’Iran non lascerà che alcuna aggressione alla sua sovranità resti impunito”. Il tempo della guerra per procura è terminato.

La Repubblica Islamica deve ora esaminare con cautela le sue possibilità di ritorsione. L’uso della propria flotta di piccole e facilmente mobili imbarcazioni, capaci di posare mine nello Stretto di Hormuz o compiere attacchi suicidi contro navi americane. Questa strategia potrebbe bloccare circa un terzo del commercio mondiale di petrolio, causando un’impennata dei prezzi che potrebbe provocare una recessione globale. Tuttavia, i Paesi che ne soffrirebbero di più sarebbero la Cina e gli stessi stati del Golfo, con i quali l’Iran da oltre un decennio sta cercando di migliorare le relazioni per uscire dall’isolamento diplomatico.

Dunque, i futuri scenari sembrerebbero essere due: il riconoscimento del fallimento o il continuo della lotta.

Se Khamenei, sotto vigile consiglio delle voci più moderate, quali il Presidente Pezeshkian o altri riformisti, optasse per il primo scenario, il regime potrebbe aprire un canale negoziale con Israele e Stati Uniti. Una simile scelta comporterebbe la cessazione del programma di arricchimento nucleare, l’abbandono dell’arsenale missilistico, la sospensione del sostegno alle milizie alleate e la rinuncia all’obiettivo esplicitamente dichiarato di eliminare Israele. Una resa totale. Il preludio del crollo dell’intero sistema teocratico.

Per evitare la prima dinamica, Teheran potrebbe scegliere di proseguire il conflitto accelerando verso la soglia del nucleare. Qualora l’Iran conservasse ancora riserve di uranio altamente arricchito e il know-how tecnico necessario, il regime potrebbe tentare un test atomico, nella speranza che lo status di potenza nucleare possa ripristinare parte della deterrenza perduta.

Tuttavia, aumentare l’aggressività è una scommessa pericolosa, che potrebbe condurre il regime all’isolamento e al collasso. Più la guerra si prolunga, più profonde saranno le ferite nel Paese, più la popolazione potrebbe rivolgere la propria frustrazione contro il regime: un’evoluzione che costituisce il principale motore della strategia di Netanyahu. Invece, qualora il governo scegliesse la strada dell’arma nucleare per blindare il proprio potere, il rischio sarebbe quello di trasformare l’Iran in una nuova Corea del Nord, isolata, pericolosa, imprevedibile; uno scenario che nessun iraniano, in cuor suo, desidera davvero.

A cura di Marco Antonio Mollaioli

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