Congo – Ruanda: la guerra lunga trent’anni che nessuno vuole fermare

Repubblica Democratica del Congo. Uno stato vasto quanto tutta l’Europa Occidentale e incarnazione perfetta dello stereotipo del Paese africano alla deriva: una crisi umanitaria permanente, laboratorio tragico di neocolonialismo moderno.

L’RDC è anche, da oltre trent’anni, un campo da battaglia. Nelle regioni orientali, in particolare nel Nord e Sud Kivu, si combatte infatti un conflitto silenzioso, ma devastante, i cui tratti affondano le radici nel genocidio del Ruanda del 1994.

Dopo il massacro di quasi un milione di persone appartenenti alla minoranza Tutsi, centinaia di migliaia di ruandesi Hutu, fra cui molti responsabili del genocidio, fuggirono oltre il confine occidentale, stabilendosi, appunto, nell’est del Congo. Da allora, la presenza di milizie Hutu, quali le FDLR, ha fornito al Ruanda (governato da Paul Kagame, dittatore ed ex comandante del FDR, la milizia Tutsi che fermò il genocidio e prese il potere) il pretesto per ripetuti interventi militari, ufficialmente “difensivi”, ma sempre più di carattere predatorio. In questo contesto si inserisce l’ascesa del Movimento del 23 Marzo (M23), gruppo armato Tutsi congolese appoggiato da Kigali (anche se quest’ultima nega il coinvolgimento) con oltre, secondo le stime ONU, 6 mila soldati ruandesi in territorio congolese.

Il M23 non è semplicemente una presenza militare, ma è una vera e propria entità statale. Il gruppo, infatti, ha nominato propri funzionari a capo di governi provinciali, uffici doganali, posti di polizia, sistemi fiscali e perfino agenzie per l’immigrazione. A Goma e Bukavu (i due capoluoghi delle regioni del Kivu, cadute ad inizio anno) si parla già di un’amministrazione alternativa, di fatto indipendente da Kinshasa, che controlla le risorse locali e applica proprie normative. Uno Stato nello Stato.

Il centro nevralgico di questo controllo parallelo è l’area mineraria, in particolare le miniere di Rubaya, ricche di oro, coltan, stagno e altri minerali strategici, indispensabili all’industria globale dell’elettronica e della difesa. Qui il M23 ha instaurato un sistema fiscale autonomo: estrae, tassa e commercia le risorse con il sostegno della logistica ruandese. Il Ruanda funge da hub per il contrabbando di questi materiali, che vengono poi immessi nei mercati internazionali. Tutto ciò rappresenta una sfida aperta all’integrità territoriale della Repubblica Democratica del Congo.

A livello diplomatico, la situazione resta estremamente fragile. Il 27 giugno scorso, sotto la mediazione degli Stati Uniti, è stato firmato a Washington un accordo tra RDC e Ruanda che prevede il ritiro delle truppe ruandesi entro 90 giorni, il reciproco rispetto dell’integrità territoriale, la salvaguardia dei civili tramite il ritorno degli sfollati e la garanzia della fine del conflitto. Tuttavia, dettaglio non da poco, il gruppo M23 non è stato coinvolto nei negoziati, anzi non è stato proprio mai citato, e, inoltre, il Ruanda non è stato riconosciuto come paese belligerante. Il cessate il fuoco, dunque, appare più come un esercizio simbolico che come un reale passo verso la pace, utile più che altro a rafforzare le carte degli USA nell’area.

Lo stesso Trump ha affermato che gli Stati Uniti si è assicurata “una larga parte dei diritti minerari della Repubblica Democratica del Congo”, un passo avanti non indifferente nella competizione con la Cina che finora sfruttava una parte consistente dei giacimenti congolesi, in particolare quelli di cobalto, che rappresentano l’80% delle riserve mondiali.

Strategia riconfermata anche dal Presidente congolese Félix Tshisekedi, il quale si augura che Washington, per sfruttare i giacimenti delle regioni orientali, convinca le milizie Tutsi a ritirarsi, ma è assai più probabile che gli USA trovino un accordo reciprocamente vantaggioso col M23 e Ruanda piuttosto che rischiare ad inimicarsi il regime di Kagame, il più stretto alleato di Israele in Africa.

Altro soggetto che si avvantaggerà dei nuovi equilibri sarà il Qatar, che sta mediando parallelamente una trattativa fra M23 e Congo. L’emirato ha fortemente investito a Kigali, acquistando il 60% della RwandAir, finanziando il turismo di lusso tramite il progetto “Kigali Convention Centre” e rilevando numerosi impianti di raffinazione che lavorano minerali trafugati nelle regioni congolesi occupati.

In un paese dove la politica è spesso solo una finzione burocratica, la pace non si misura né realizza con le strette di mano fra i capi di Stato, ma solamente nel controllo effettivo dei territori; e, ad oggi, mentre Washington celebra “l’ennesimo” cessate il fuoco a tinte stelle-strisce, sul terreno l’M23 continua a governare, il Ruanda a trafficare, e Kinshasa a osservare, marginale. Il resto, come sempre, lo pagano i congolesi.

A cura di Leonardo Crimaldi

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