Una considerazione preliminare e lapalissiana: il drammatico crocevia della storia umana che chiamiamo conflitto israelo-palestinese non inizia il 7 ottobre 2023, data impressa nell’opinione pubblica occidentale per l’efferato attentato compiuto da Hamas. Quella è solo l’ultima pagina di una vicenda che intreccia religione e politica, memoria e violenza, in un percorso segnato da intolleranza, incomprensioni e una disattenzione internazionale che ha spesso favorito il protrarsi della crisi. Le radici affondano ben oltre il secolo scorso, ma per delinearne un quadro più comprensibile occorre concentrarsi sugli sviluppi contemporanei: gli ultimi cinquant’anni, in cui si è sviluppata la trasfigurazione dello Stato di Israele e, in parallelo, l’inconsistenza della leadership palestinese. In questo arco di tempo si gioca la vexata quaestio di ciò che resta, o forse è andato perduto, dello spirito di Camp David.
Nel 1978, quando Menachem Begin si decise per la restituzione del Sinai all’Egitto di Anwar Sadat, con la mediazione di Jimmy Carter, parve che la pace potesse finalmente farsi strada. Lo stesso Begin, leader proveniente dall’ala più dura del sionismo, fu insignito del Nobel per la pace: un segnale che lasciava immaginare una futura rinuncia agli eccessi nazionalisti e l’apertura a un progressivo ritiro dai territori occupati. Eppure, fu un’illusione. L’intervento in Libano, la guerra del 1982, l’occupazione di Beirut sotto la guida di Ariel Sharon – sotto gli occhi vigili dello stesso Begin – segnarono un ritorno all’escalation militare. In quegli stessi anni, il Medio Oriente era destabilizzato dall’Iran rivoluzionario di Khomeini, che sosteneva l’ascesa di Hezbollah, mentre sul fronte palestinese prendevano corpo le prime forme di resistenza popolare: la Prima Intifada e, nel 1987, la nascita di Hamas, come risposta alla svolta diplomatica dell’OLP. Gli anni Novanta offrirono una nuova occasione. La presidenza Clinton riuscì a riportare israeliani e palestinesi al tavolo dei negoziati: gli Accordi di Oslo segnarono il riconoscimento reciproco e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma la speranza si interruppe tragicamente con l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995, ucciso da un estremista israeliano. Alle elezioni del 1996 prevalse Benjamin Netanyahu, giovane leader del Likud, che inaugurò una linea politica di dura opposizione agli impegni di Oslo. Da quel momento, i tentativi di compromesso furono sistematicamente indeboliti, fino al fallimento del summit del 2000, il cosiddetto Camp David II, naufragato sulle questioni più divisive, a cominciare da Gerusalemme. Le conseguenze furono immediate: la seconda Intifada, le nuove operazioni militari, la recrudescenza del conflitto. Anche i successivi ritiri dai territori – dal Libano e, più tardi, da Gaza e dalla Cisgiordania – giunsero troppo tardi per invertire la rotta. Nel 2006 la frattura interna palestinese si trasformò in guerra civile: Hamas, forte della vittoria elettorale a Gaza, prese con le armi il controllo della Striscia, cacciando Fatah e confinandola in Cisgiordania. Fu un punto di non ritorno, che sancì la divisione definitiva della rappresentanza palestinese e rese ogni trattativa ancora più complessa.
Intanto Israele, sotto la guida di Netanyahu e della destra nazionalista, si avviava a una trasformazione interna profonda. Il peso delle comunità ultraortodosse, l’influenza delle migrazioni dall’ex blocco sovietico – sino alle stime più recenti che registrano un 18% originario della Russia – e l’assenza di una vera alternativa politica portarono a un assetto percepito da molti come sempre più autocratico. L’anima prevaricatrice del sionismo, un tempo minoritaria, si impose nel dibattito e nelle scelte di governo, riducendo ulteriormente gli spazi per un compromesso. L’annosa sequenza di eventi, dall’illusione di Camp David alla guerra civile palestinese del 2006, passando per Oslo, Rabin e i fallimenti dei negoziati successivi, compone il mosaico di un conflitto che continua a riprodursi senza soluzione. Ogni occasione mancata ha contribuito ad allontanare le prospettive di pace, relegandole al rango di memoria più che di progetto. Così lo spirito di Camp David, nato come promessa di riconciliazione, sopravvive oggi soltanto come eco lontana: non più linea guida delle decisioni politiche, ma ricordo di un’occasione svanita, relegata all’insignificanza nel cassetto dei sognatori.