Negli ultimi mesi, i rapporti tra Washington e Caracas si sono incrinati fino a rendere credibile ciò che fino a poco fa pareva remoto: un confronto aperto. Le premesse non sono nuove. Già con la prima amministrazione Trump e poi con Joe Biden al timone della Casa Bianca, le relazioni erano tutt’altro che distese. Nel 2020, gli Stati Uniti accusarono Nicolás Maduro di «narcoterrorismo» e misero una taglia da 15 milioni di dollari come ricompensa per chiunque avesse informazioni utili alla sua cattura. Il 6 gennaio 2025, Biden definì Edmundo González il «vero vincitore» delle presidenziali venezuelane, nonostante l’esito ufficiale favorevole al leader chavista; quattro giorni dopo la taglia su Maduro fu portata a 25 milioni. Con la seconda presidenza Trump la frattura si allargò ancora: ad agosto la ricompensa venne raddoppiata a 50 milioni.
L’autunno ha accelerato tutto. Tra settembre e fine ottobre, Washington ha rivendicato il bombardamento di dieci imbarcazioni sospettate di narcotraffico nel Mar dei Caraibi e a est dell’oceano Pacifico, con un bilancio di circa 43 vittime. Il 15 ottobre la Casa Bianca ha annunciato di aver autorizzato operazioni segrete della CIA in Venezuela. E il 24 ottobre sono arrivati due segnali inequivocabili: secondo CNN, Donald Trump starebbe valutando attacchi ai narcos all’interno del Venezuela; nel frattempo, il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha ordinato il dispiegamento nel Mar dei Caraibi della portaerei USS Gerald R. Ford, la più avanzata della flotta statunitense, capace di imbarcare almeno 5.000 militari e 75 jet. La Ford si aggiunge a una presenza già consistente nell’area: almeno dieci unità tra cacciatorpediniere e navi da guerra, con soldati e velivoli a bordo.
Caracas ha risposto alzando il tono della mobilitazione. Il 18 agosto, dopo l’aumento della taglia, Maduro ha annunciato 4,5 milioni di miliziani operativi sul territorio nazionale. Nella seconda metà di settembre le Forze Armate Nazionali Bolivariane — circa 123.000 effettivi in servizio attivo — hanno avviato addestramenti all’uso delle armi per i civili. L’11 ottobre il governo ha lanciato l’«Operazione Indipendenza 200»: esercitazioni a livello nazionale con almeno 1.500 partecipanti tra militari e cittadini, dichiarate concluse pochi giorni dopo, quando tutti gli stati del Paese avrebbero raggiunto “un livello adeguato di preparazione allo scontro con gli Stati Uniti”. A partecipare, per lo più fedeli al governo: affiliati al PSUV e membri della Milicia Nacional Bolivariana, la quinta colonna delle forze armate, composto da civili e creato da Hugo Chávez nella prima metà degli anni Duemila; i critici la definiscono una «guardia pretoriana» dell’esecutivo. Nel frattempo, Maduro ha esortato cittadini e riservisti ad arruolarsi.
Qual è il valore reale di questa mobilitazione? Alcuni esperti restano scettici sui numeri sbandierati — milioni di volontari — e osservano che, in caso di invasione statunitense, solo una minima parte degli arruolati reagirebbe in difesa del Paese. Nella stessa prospettiva, l’apparato militare venezuelano appare orientato più alla stabilità interna che alla difesa da minacce esterne, specie se l’avversario è la principale potenza militare mondiale.
Resta poi il nodo degli obiettivi americani. È lotta al narcotraffico o c’è un secondo fine politico? Trump non ha finora fornito prove che le barche colpite trasportassero stupefacenti. Per diversi analisti, l’obiettivo della Casa Bianca sarebbe rovesciare Maduro, mediante la pressione indiretta sulla società oppure un’offensiva militare diretta.
Sul piano esterno, Maduro ha riallineato il Paese sull’impostazione antioccidentale di Chávez, stringendo alleanze politiche, economiche, militari ed energetiche con Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Il 22 ottobre 2025, il dittatore venezuelano ha annunciato che Caracas dispone di 5.000 missili antiaerei Igla-S di fabbricazione russa, pronti in caso di attacco statunitense.
La traiettoria, per ora, punta verso l’escalation. La scelta più probabile da parte di Washington vedrebbe l’uso massiccio di attacchi aerei — come a giugno contro Teheran — più che un’occupazione su larga scala alla Panama 1989–1990, un’ipotesi da non escludere in questo scenario di tensione. L’unica soluzione resta, come sempre, la diplomazia formale e informale, nella consapevolezza che la crisi è ancora lontana dal suo pieno dispiegarsi.
A cura di Alessandro Bossi