V13: lezione di anatomia processuale attraverso gli occhi di Emmanuel Carrère

Saint-Denis, Stade de France. La parte est di Parigi, tra il decimo e l’undicesimo. Le terrazze dell’undicesimo. Carrère comincia col dire che non è stato il processo del Bataclan, quello cui ha presenziato. Una precisazione, messa lì per correttezza ma che permette di ampliare il nostro spettro di riflessione. Un nobile tentativo di disancoraggio dalla narrazione giornalistica, un espediente osservativo necessario per introdurre la sua traversata. I nove mesi del procès du siecle, sono quelli in cui Carrère ritrova la passione per la cronaca giudiziaria; un motivo che l’aveva contraddistinto durante la stesura de “L’avversario”.

Il francese è un autore dalla penna visiva, che scruta nelle cavità dell’animo umano e sa individuare i dettagli rimasti in superficie o apparentemente descrittivi, denotativi. Il suo umanismo risiede nella struttura tripartita della cronaca: prima le vittime, poi gli accusati e infine la Corte d’Assise Speciale. Ogni sezione necessita di una descrizione umana concentrata, che permetta all’autore di soffermarsi sulle molteplici soggettività. Lo sfondo del processo si compone di quesiti, grandi dilemmi morali. I giudici dovrebbero comportarsi come autorità morali? Com’è possibile che gli attentatori si trovassero in Francia e lì si fossero radicalizzati? Che ruolo hanno le autorità belghe nella gestione di Molenbeek, il distretto ‘marocchino’ di Bruxelles dei principali colpevoli delle stragi? Cosa scatta nella testa di uno come Abdeslam, quando sceglie la lotta terroristica, per poi rivendicarla ancora dinanzi alla Corte?

Carrère passa in rassegna tutte queste domande, senza renderle esplicite. Se ne serve per rendere a suo modo un’idea di trauma, di sconvolgimento sociale. Pertanto, a distanza di dieci anni dagli attentati, il cuore della Francia è ancora scosso dall’accaduto. Seguire V13, un processo di tal portata politica oltreché un pezzo di storia giudiziaria, adoperando le proprie lenti interpretative beninteso, è un atto importante ché permette di riverberare pezzi di memoria collettiva. Significa riesumare un clima di terrore, anche se è chiaro che non serva andare troppo lontano per vederne gli effetti.

Qualcuno scriverebbe – ed è già stato detto – che quel giorno è stato l’11 settembre della Francia.

L’intensificarsi delle operazioni militari in Siria per speronare lo Stato Islamico, in risposta alle stragi rivendicate da Daesh stesso, è una prima analogia. Hollande, tra l’altro protagonista di una giornata del processo, perse parte della sua popolarità, già risibile al terzo anno di mandato presidenziale. Gli insistenti discorsi sul fallimento del multilateralismo, la mancata integrazione dei giovani immigrati di terza generazione: il lepenismo, nella versione di successo degli anni ‘10. Tutto in piccola parte ha concorso alla rarefazione dell’aria mediamente ottimista che si respirava nel Paese, alla propagazione della paura. Nei due mandati successivi poi, sembrava che i macronisti fossero riusciti a trasformare questo pessimo sentore in un nuovo ordine, legato fortemente alla figura del Presidente.

Col senno di poi, appare evidente che la panacea non sia stata trovata, e chissà che la sensazione di caos, nonché il dibattito sulla cacciata dello straniero, non abbiano distratto i francesi dalla natura interna dei loro stessi problemi. Dopotutto, il silenzio che il 13 novembre porta con sé è divenuto un lascito: in quei due anni, ognuno tra i familiari delle vittime, nonché le vittime in prima persona, sono stati i liberi testimoni della strage e come tali, le loro modalità di testimonianza sono da comprendere.

Accogliere di buon grado le reazioni, quand’anche si tingano di livore e rabbia, portino avanti attacchi verbali contro i terroristi, o al contrario la riconciliazione parziale con gli stessi, in un misto di fascinazione e mistero psicologico. Il lascito pedagogico delle stragi soggiace proprio in questo mistero, altrimenti definibile come troppo umano. Crudele, ma dannatamente giusto.

Nel rispetto di chi ha rivissuto sulla propria pelle quell’orrore una seconda volta, denunciandolo nelle testimonianze, è giusto che le società europee continuino ad elaborare quell’assurdo, che è la violenza cieca della morte e le sue reazioni. Qualche indizio per risolvere il puzzle è contenuto in V13; lì dentro potremo toccare l’assurdo con gli occhi, rammaricarci ad ogni pagina chini su quella disperazione, per poi sospirare come in apnea alla riflessione della pagina che segue. V13 trova un senso di giustizia nel racconto dell’efferatezza, poiché è bene raccontare se lo si fa con i giusti termini, così che ogni cosa diventi effabile. Insieme provarci, come fossimo in un rito che conduce a una società migliore.

Nel ricordo di chi ha subito le violenze, delle vittime di quei soprusi – 13 Novembre 2015.

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