Da Truman a Trump : Il contenimento dell’avversario                                      

It must be the policy of the United States to support free peoples who are resisting attempted subjugation by armed minorities or by outside pressures.”

Harry S. Truman, Presidente USA

Con questa dichiarazione il presidente  americano Harry S. Truman apriva il proprio discorso al Congresso in cui avrebbe enunciato i principi cardine della politica del containment, volta a contenere l’espansione del comunismo e dell’influenza sovietica,  sancendo di fatto l’inizio della guerra fredda. Da allora sono passati più di settant’anni e la fine della guerra fredda sembrava aver apparentemente  relegato questo lemma  al passato, tuttavia l’ascesa della Cina come potenza emergente e il timore che una nuova guerra fredda sia pressocchè già iniziata rendono la questione del contenimento estremamente attuale.

Il containment tra ieri e oggi

In termini geopolitici in passato gli Stati Uniti avevano cercato di accerchiare la potenza che dominava la grande massa eurasiatica, l’Urss, tramite la creazione di due alleanza militari: la Nato ad occidente ed il trattato di sicurezza nippo-americano ad oriente. Ad essi si aggiunse poi nel 1972 l’apertura delle relazioni diplomatiche con la Cina in funzione antisovietica.

Attualmente numerosi fattori indicano che gli Stati Uniti, seppur con le dovute differenze, stiano cercando di replicare la politica del contenimento nei confronti del nuovo rivale Cinese costruendo, in primis in Asia, un sistema di accordi e alleanze che funga da balance-of-power contro Pechino.

Fra gli anni ’90 e l’inizio del ventunesimo secolo gli Stati Uniti mantennero con la Cina un approccio di cooperazione supponendo che la sua crescita economica e la sua integrazione nel sistema mondiale avrebbero portato mutui benefici per entrambe le nazioni e avrebbero favorito la liberalizzazione politica e i valori occidentali all’interno del paese ( ricordiamo a proposito l’ingresso nel 2001 della Cina nel WTO).

Tuttavia l’entusiasmo statunitense e le illusioni di una “fine della storia” , già smorzati dall’undici settembre e dalle sue conseguenze, si scontrarono inevitabilmente con la crisi finanziaria del 2008  dalla quale il Dragone fu solamente appena sfiorato. Se nel 1999 il Pil cinese equivaleva  all’incirca al 10% di quello americano nell’anno 2009 era già un terzo e nel 2019 valeva addirittura i suoi due terzi. Inoltre l’adozione da parte della Cina di una politica estera più protagonista nel mondo (si possono citare le Olimpiadi del 2008 o il lancio della Belt and Road initiative nel 2013) e l’aumento delle spese militari hanno contribuito a scuotere Washington dal torpore tanto che a partire dal secondo mandato di Obama era ormai consolidata l’opinione che la Cina fosse una minaccia esistenziale.

 La prima iniziativa significativa di contenimento fu l’annuncio nel 2012 di un “Pivot to Asia” concretizzatosi soprattutto con la creazione del Trans-Pacific Partnership, accordo commerciale di libero scambio finalizzato a ridurre la dipendenza commerciale dei firmatari dalla Cina e legarli più strettamente agli Stati Uniti. Nonostante il parallelismo con la guerra fredda sia evidente ci sono anche delle sostanziali differenze. In  primis il fatto che mentre nel secolo scorso il contenimento era orientato per lo più in una logica di high-politics privilegiando il ruolo delle alleanze militari, mentre la nuova China policy ha invece un approccio più onnicomprensivo dando un importante peso alla dimensione economica dello scontro fra i due paesi.

Una svolta isolazionista?

Ma il vero punto di svolta è stata l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Apparentemente la retorica “trumpiana” della America First potrebbe  apparire  in controtendenza rispetto ad una politica di contenimento. Ritornando alla citazione iniziale di Truman in cui emergeva una concezione degli Stati Uniti come potenza egemone che si fa carico dei costi del contenimento supportando i cosiddetti “popoli liberi” non sembra esserci nessun punto di contatto  con la visione di un’America isolazionista e sospettosa nei confronti dei propri alleati.

Sin da subito il presidente repubblicano ha infatti denunciato molti dei trattati di libero scambio come “unfair”, richiedendo la revisione del NAFTA e degli accordi con la Corea del Sud oppure sciogliendo l’iniziativa del TPP. Inoltre ha affrontato in maniera particolarmente diretta il problema del free-riding” dei propri alleati euro-asiatici, insistendo veementemente che i membri NATO raggiungessero la loro quota di contributi all’alleanza o anche esigendo che Corea del Sud e Giappone aumentassero le loro spese militari.

Tuttavia non bisogna fraintendere queste azioni come ad una rinuncia al contenimento ma anzi interpretarle  in un certo senso come propedeutiche ad esso. Già la guerra commerciale e la politica contro Huawei preannunciavano un oculato piano di limitazione delle ambizioni del  gigante orientale. L’attenzione per l’Asia e soprattutto per la nozione di Indo-Pacifico (ed un certo senso una sorta di disinteresse per l’Europa) è stata poi  un costante leitmotiv nei quattro anni dell’amministrazione Trump.

La collaborazione fra Stati Uniti e Corea del Sud e Giappone, nonostante gli attriti sulle spese militari, ha trovato nuova linfa su numerosi temi come chiarito dal fatto che i due paesi hanno annunciato ingenti acquisti di armamenti USA e sistemi difensivi high-tech. Particolarmente significativa  è stata  anche la creazione nel 2016 e la formalizzazione nel 2019 della Free and Open Indo-Pacific, un insieme di strategie nippo-americane per la cooperazione dei numerosi attori nella regione. Nonostante lo scioglimento del TPP,  avversato per la sua impostazione multilaterale, gli Stati Uniti si sono dichiarati aperti a potenziali accordi bilaterali di libero scambio con Tokyo  e nel 2017 il segretario della difesa Mattis ha riaffermato l’impegno a difendere il Giappone da qualsiasi attacco esterno.

Il perno dell’accerchiamento nei confronti di Pechino è però il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), un forum di sicurezza intergovernativo che riunisce Australia, India, Giappone e Stati Uniti. Inizialmente creato nel 2007 ma frenato dai timori australiani di pregiudicare i rapporti commerciali con la Cina il QUAD  è stato rivitalizzato nel 2017 impegnandosi in progetti ed esercitazioni militari comuni per contrastare le mire  Cinesi sul Mar Cinese Orientale. La scelta di includere anche l’India insieme ad alleati più tradizionali mostra come l’ascesa Cinese e la sua politica estera più assertiva abbiano spinto molte nazioni confinanti fra le braccia di Washington per controbilanciare l’avversario. La vicinanza Indiana all’occidente è stata anche testimoniata più volte dalle frequenti esternazioni di sostegno e stima da parte del presidente indiano Narendra Modi nei confronti di Donald Trump. La nozione stessa di  Indo-pacifico comprende intrinsecamente una sorta di ponte fra Oriente ed Occidente che parte dall’India e lega tutti i paesi del Sud-est asiatico e poi passa sull’oceano fino alle coste della California. Per tanto negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno significativamente orientato la loro politica ad un allargamento del loro fronte agli stati della regione spaventati dalle ingerenze Cinesi sui mari. Nel 2017 i rappresentanti del QUAD avevano partecipato al summit dei ministri dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico,  e nel 2021 il QUAD ha aperto le proprie riunioni a Vietnam (membro ASEAN)  e Nuova Zelanda , lasciando parlare di una sorta di QUAD  “plus”  allargato.

Tuttavia un’espansione del QUAD agli stati dell’ASEAN sembra per ora prematura nonostante nel 2020 il segretario di stato Mike Pompeo  prefigurasse una specie di “NATO Asiatica”. Infatti sebbene ci siano state molte occasioni di collaborazione fra Stati Uniti e paesi ASEAN (numerosi accordi bilaterali e la creazione dell’AUMX, una comune esercitazione navale) l’associazione resta un blocco estremamente  eterogeneo col quale è difficile dialogare. Ma soprattutto  il principale ostacolo è il fatto che la Cina sia il principale partner commerciale dell’ASEAN e condivida con essa un’area di libero scambio, privilegio di cui gli Stati Uniti non godono anche per via del fallimento del TPP.

L’insediamento di Biden

Con l’avvicendamento alla Casa Bianca tra Trump e Biden è chiaro che  i punti di continuità prevalgono su quelli di discontinuità. Apparentemente Biden ha cercato di sottolineare la rottura con la precedente amministrazione soprattutto con l’uso dello slogan “America is back” e annunciando un  riavvicinamento ai tradizionali partner europei. Ma la ratifica del patto di sicurezza dell’AUKUS a scapito della Francia e la storica visita della vicepresidente Harris in Vietnam fanno presagire un futuro ben diverso.

Si può  affermare con facilità  che nell’arco dello scorso decennio gli Stati Uniti abbiano sensibilmente cambiato  rotta sulla Cina ed  intrapreso una politica di contenimento dell’avversario  molto simile a ciò che i nostri nonni videro negli anni negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale sebbene abbia come teatro principale l’Asia sud-orientale e affianchi a questioni militari anche altre di natura economico-tecnologica imprescindibili in un mondo più complesso ed interdipendente. La progressiva costruzione di impalcature diplomatiche, economiche e militari con paesi vicini alla Cina è riuscita parzialmente nell’intento di ingabbiarla nei propri confini e a limitarne le ambizioni geopolitiche ma chiaramente siamo soltanto  agli albori di quello che sarà sicuramente lo scontro dei prossimi decenni. Questa sorta di fune  che imbriglia il dragone era stata persino già ipotizzata nel 1965 in un memorandum del segretario di stato Robert McNamara quando ancora la Cina non costitutiva il rivale che sarebbe diventato. Indubbiamente la fulminea ascesa dell’economia cinese che per molti sarà entro il 2030 la prima del mondo giocherà un ruolo determinante in futuro come anche la capacità Statunitense di saper far convergere i paesi ASEAN verso la propria orbita e di tenere gli alleati del vecchio continente al proprio fianco scongiurando la tentazione di aperture ad oriente.

A cura di Michele Santolini

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