Premessa
Con questo articolo vogliamo riflettere su come la gestione degli spazi relativa allo stato d’emergenza pandemico abbia comportato alcuni cambiamenti sociologici sul nostro modo di concepire gli spazi sociali, in particolare quelli accademici. Il nostro scopo non è di discutere della necessità o dell’ efficacia di determinate misure restrittive. Piuttosto, si tratta semplicemente di analizzarne gli aspetti più critici, evidenziando come siano sintomo e riflesso di radicali cambiamenti del modo di concepire gli spazi sociali.
“Sono quasi arrivato in dipartimento. Comincio a rovistare nelle tasche, tiro fuori la mascherina, la indosso. È il turno del cellulare. Apro l’app Io, preparo il green pass. Apro anche l’app per le prenotazioni dei posti in aula. Caricamento in corso. Nel frattempo sono arrivato davanti all’ ingresso del dipartimento. L’ app per le prenotazioni notoriamente è lentissima. Aspettando il caricamento della prenotazione, esibisco il green pass. Aspetto con imbarazzo davanti allo scanner delle prenotazioni che finisca il caricamento. La fila si ingrossa dietro di me, la sto rallentando. Finalmente si apre la prenotazione, la passo nervosamente sotto lo scanner, sperando che la rilevi subito. Purtroppo sono necessari un paio di tentativi. Finalmente si accende la luce verde, posso entrare. Percorro le scale di fretta, entro in aula. Il professore è già arrivato. Cerco un posto a sedere, lo trovo. Rispettando la segnaletica, lascio liberi due posti alla mia destra e alla mia sinistra. Con la mascherina e il distanziamento, mi è quasi impossibile chiedere ai miei vicini una parola della spiegazione che mi sono perso. Poco importa, sentirò la registrazione”
I nonluoghi
Nel 1992, l’antropologo, e filosofo francese Marc Augè dà alle stampe la sua opera più celebre: “Non-lieux”(Nonluoghi). In contrapposizione con i luoghi antropologici, che definisce luoghi identitari, relazionali e storici, l’ autore chiama nonluoghi gli aereoporti, le autostrade, i centri commerciali, insomma tutti quei luoghi, prodotti dalla tarda modernità, che sono concepiti quasi esclusivamente come luoghi di passaggio e di consumo. Già Herbert Marcuse alla fine degli anni ’60 aveva descritto le autostrade come il simbolo della vita tardo moderna: un luogo in cui si incrociano migliaia di vite senza che si produca alcuna relazione, costruito appositamente perché gli individui procedano a tutta velocità seguendo direzioni prestabilite.

Nei nonluoghi, rallentare la propria corsa per provare a scambiare due chiacchiere rischia di creare rallentamenti, incidenti o ingorghi. Se i luoghi antropologici, come per esempio le piazze, favoriscono la relazione sociale, la stanzialità e l’identificazione di una comunità con un determinato spazio ed una determinata storia, favorendo dunque la creazione di un “sociale organico”, i non luoghi creano una “contrattualità solitaria” (dell’ aspetto contrattuale parleremo successivamente), in cui l’individuo interagisce quasi esclusivamente con una segnaletica impersonale che indica la “modalità d’uso” del luogo, spesso di carattere prescrittivo o proibitivo (“mettersi in fila sulla destra”, “vietato fumare”, “ritirare la carta”,“vietato sedersi qui”…).
È bene sottolineare che i nonluoghi sono un prodotto tipico dell’ epoca che Augè chiama surmodernità, caratterizzata dall’ accelerazione dei processi di globalizzazione. La nostra epoca, sempre più globalizzata, è dunque una implacabile produttrice di nonluoghi.
Università e gestione autoritaria degli spazi
In questi due anni abbiamo assistito ad un radicale cambiamento nella gestione degli spazi, fortemente condizionata dall’ esigenza di contenere il contagio da COVID-19. Ci soffermeremo sull’ analisi degli spazi universitari, perché di questi abbiamo una più diretta esperienza, cercando tuttavia di mostrare come questo caso particolare si inserisca all’ interno di dinamiche sociali e politiche di più vasta portata.
Ferma restando la necessità di trovare un modo di erogare la didattica contenendo il contagio, anche la scelta delle restrizioni da adottare non è certo neutrale circa l’ idea che si ha di università.
Essendo la relazione interpersonale il bersaglio dichiarato delle misure di sicurezza, l’università, da luogo antropologico dell’ incontro, del confronto e della pratica relazionale, indispensabili per la formazione e la circolazione del pensiero, si riduce a mero contenitore dei vari corsi erogati.
E qui arriviamo alla natura contrattuale delle interazioni nei nonluoghi: solitamente queste ultime non nascono dalla spontaneità o dalla liberalità, ma vi si accede pagando o mostrando una qualche forma di documento-permesso(pensiamo ai biglietti della metro, ai documenti per superare i controlli in aereoporto, al pedaggio in autostrada…). Chiaramente, se chi entra deve mostrarsi “disciplinato” o comunque “in regola”, è perché si aspetta di ricevere un servizio in cambio (sia esso il volo o l’utilizzo dell’autostrada). La natura onerosa o quantomeno regolamentata dell’ accesso ai nonluoghi presuppone l’ erogazione di un servizio a carico della controparte. Dopo essere entrati nei nonluoghi, non possiamo muoverci in totale libertà. Dobbiamo seguire i percorsi prestabiliti degli aereoporti, possiamo raggiungere solo la stanza che abbiamo prenotato, e via dicendo. Nulla di più diverso di ciò che avviene in una piazza o in un parco comunale.

Qualcosa di simile potrebbe essere detto per i sistemi di controllo delle prenotazioni e del green pass all’ entrata delle università: se chi entra deve essere autorizzato, deve mostrarsi in regola, l’ università smette di essere un luogo liberale (nel senso filosofico del termine) ed i vari corsi, invece di essere occasione per lo scambio e la formazione di idee, diventano assimilabili a dei servizi, ad una cessione di informazioni per i quali noi abbiamo pagato e tasse universitarie e siamo specificatamente prenotati. Sebbene non siano imputabili dirette responsabilità politiche a chi ha progettato la logistica del sistema di prenotazione e dei protocolli di sicurezza, è evidente come la negazione delle necessità di relazione e apertura nella comunità accademica risultino coerenti con il programma politico di neoliberalizzazione, che indirizza le recenti riforme della scuola, dell’università e del lavoro. Secondo questo orientamento, muovendo dal celebre motto thatcheriano “la società non esiste”, si tende a ricondurre tutti gli ambiti della vita (istruzione e accademia comprese) a schemi contrattuali di mercato. Non stupisce dunque il fatto che l’ esistenza di una comunità accademica nel senso antropologico del termine non sia considerata una priorità, e che le restrizioni nelle università sono state (parzialmente) revocate con netto ritardo rispetto ad altri ambiti della vita associata (o dissociata) come quelli del consumo.
È capitato addirittura di incontrare controllori incaricati di verificare che gli studenti non sostino all’ interno del dipartimento tra una lezione e l’ altra. In questi tristi momenti l’ università pare ridursi ad un insieme di percorsi individuali, migliaia di tracciati da percorrere il più velocemente possibile, minimizzando le soste, per raggiungere i vari corsi-servizi e per poi evacuare senza creare assembramenti. Questa gestione dello spazio, evidentemente autoritaria, risponde alle esigenze tipiche dei nonluoghi di razionalizzare, canalizzare e direzionare gli spostamenti e le interazioni umane, per poterne gestire la complessità e, in questo caso, il rischio sanitario.
Governabilità e biopolitica
“Razionalizzare, direzionare e gestire”. Se concordiamo sull’utilizzo di questa terminologia è doveroso a nostro avviso riportare, per amor di completezza, le riflessioni che Michel Foucault avanzò in merito ad una ridefinizione del potere e di come quest’ultimo esercitasse quotidianamente la sua influenza sulla condotta dei soggetti.
Il celebre filosofo francese definiva questa modalità d’azione con il termine governamentalità che troviamo, ad esempio, nel ciclo di lezioni dal titolo “Nascita della biopolitica” del 1978-79. Attingendo a parametri tecnici e campi del sapere standardizzati (nel nostro caso ad esempio il famoso indice RT) , il potere centrale, acefalo ed impersonale, può orientare l’andamento della nostra quotidianità legittimando la sua ragion d’essere (e di agire) sulla base di quella razionalità strumentale che all’inizio del secolo scorso Max Weber aveva indicato come variabile indipendente della decisione politica.
Questo tipo di decisione, e qui incontriamo un concetto fondamentale che purtroppo non possiamo approfondire in questa sede in modo esaustivo, ha un valore intrinsecamente biopolitico: essa tende ad intervenire direttamente sulla “sua vita di essere vivente” dirà in “La Volontà di sapere”. Quando la posta in gioco diventa la vita biologica e la salute della nazione, il potere sovrano si traduce in “governo degli uomini”, e non più solo dei territori. In questa sede ci interessa sottolineare come l’ambiente universitario sia progressivamente diventato sempre più simile ad un nonluogo all’interno del quale una forma di disciplina biopolitica imposta da misure impersonali e anonime (di cui i famosi cartelli “vietato sostare in corridoio” e affini sono l’espressione) tenda ad estinguere qualsiasi forma di socialità, ma allo stesso tempo garantire un’ efficienza spaventosamente idonea a quella di una fabbrica taylorista. Si entra, si esegue il proprio “dovere”, si esce. Tutto in modo ordinato e preciso, nessuna sosta, nessun ricordo se non quello del compito appena svolto. Un nonluogo che, a ben vedere, rischia di diventare profondamente a-storico.

In conclusione, in questo articolo abbiamo cercato di esporre nel modo più breve possibile delle serie problematiche che a nostro parere gran parte degli studenti universitari hanno percepito durante questo periodo travagliato. Non si tratta di puntare dita verso qualcuno, piuttosto queste parole cercano di stimolare un serio dibattito su cosa davvero ci aspettiamo dall’università e cosa l’università si aspetta da noi.
Se davvero continuiamo a credere che quest’ultima sia (o debba essere) un luogo antropologico e non un distributore di servizi e riconoscimenti formali, bisognerà imparare dagli errori commessi in passato (probabilmente per una giustificabile impreparazione generale) e tenere a mente che soluzioni più congeniali possono essere trovate solo attraverso un comune connubio di volontà e responsabilità.
Collaborando e comunicando attraverso canali esistenti, ma poco utilizzati, soluzioni ben più flessibili rispetto a quelle finora utilizzate possono essere trovate. E se un domani, sventuratamente, ci dovremmo trovare in condizioni analoghe a quelle di pochi mesi fa, abbiamo il dovere morale di riflettere su come sarà possibile invertire questa preoccupante rotta.
a cura di Andrea Fusco e Antonio Bocchinfuso
La Redazione di The Journal ASP