È il 20 febbraio del 1958 quando, dopo un iter lungo 10 anni, viene approvata la legge n.75 definita come Legge Merlin dal nome della promotrice e prima firmataria della norma, la senatrice Lina Merlin, la prima donna a sedere nel Senato della Repubblica Italiana. Con 385 voti favorevoli e 115 contrari, la prostituzione di stato non esiste più.

La Legge Merlin, all’articolo 1, sostiene che “è vietato l’esercizio di case di prostituzione nel territorio dello Stato e nei territori sottoposti all’amministrazione di autorità italiane”. Introduce, poi i reati di sfruttamento, istigazione e favoreggiamento della prostituzione. Per la Merlin e i suoi sostenitori era impensabile che l’Italia patrocinasse la prostituzione per trarne guadagno.
Dopo mesi vissuti in clandestinità a causa delle minacce ricevute, la senatrice veneta si fa fotografare la mattina del 20 settembre 1958 mentre apre le persiane di una casa chiusa, gesto simbolico che sancisce la fine di un’epoca e di una rendita annuale allo Stato pari a 100 milioni di lire (1,1 milioni di euro).
Siamo negli anni ’40 e in Italia le case chiuse sono più di 500; vengono gestite dallo Stato e si basano su un sistematico sfruttamento delle sex workers. Le ragazze, per lo più provenienti da famiglie povere o orfane, si ritrovano a vivere in condizioni oppressive e al limite della reclusione.
Il lavoro di una prostituta era pagato a “cottimo”: più si lavorava, più si guadagnava e l’intera squadra di prostitute era detta “quindicina”, perché osservava turnazioni sistematiche di 15 giorni; al termine di questo periodo subentrava un altro gruppo. In questo modo era possibile evitare incontri frequenti con gli avventori e si frenava sul nascere, ove possibile, lo sbocciare di scomodi rapporti sentimentali tra clienti e lavoratrici.
Le prostitute indossavano abiti di colore giallo, il colore della vergogna e della follia, così da poter essere riconosciute meglio, mentre le scarpe erano di un colore rosso vivo.
Napoli, Firenze, Venezia: tutte le città d’Italia avevano le loro case chiuse, luoghi che oggi appartengono alla storia e che continuano a rivestire un certo fascino.
La storia delle case chiuse
Quando nascono le case chiuse? La prima menzione registrata della prostituzione come una vera e propria professione appare in alcuni documenti sumeri datati all’incirca al 2400 a.C.
In Grecia e nella Roma antica la prostituzione era praticata quasi esclusivamente da schiave, costrette dalla loro condizione sociale, ma esistevano casi di cortigiane di elevato livello culturale dette etère, che riuscivano ad accumulare notevoli ricchezze e a esercitare, sia pur indirettamente, una certa influenza sulla vita politica e sociale.
Col sopraggiungere del cristianesimo, l’istituzione cittadina del “bordello” scompare per almeno un millennio. Solamente nell’800 inizia ad imporsi come problema centrale quello del controllo igienico e sociale delle prostitute: ed ecco che nasce la casa di tolleranza.
Il postribolo diventa una casa chiusa, dall’abitudine consolidata di tenerne le finestre serrate per impedirne così la vista dall’esterno. Vi è una schedatura delle donne, sia da parte della polizia sia dei medici, che ogni due settimane dovevano sottoporsi a una visita che ne attestasse le buone condizioni di salute, mentre ogni sera agenti in borghese passavano per accertarsi che tutto fosse in regola.

Poi gli anni ’20 e il Fascismo. Patria, famiglia e virilità. Era lo slogan del regime che ha visto nelle tolleratissime case chiuse un luogo di incontro di intrepide generazioni in camicia nera.
Il sistema delle case chiuse, quindi, aveva imbastito un apparato sanitario-poliziesco di controllo e reclusione delle prostitute, mai esteso ai clienti.
La violazione dei diritti e delle libertà delle prostitute trovava il suo fondamento nella logica ottocentesca che considerava le lavoratrici del sesso come moralmente devianti e biologicamente anormali, ma allo stesso tempo come un “male” necessario, ineliminabile in quanto funzionale alla società.
Con la Legge Merlin si è vietato il controllo diretto sulla prostituzione da parte dello Stato ma anche da parte di soggetti privati e pubblici, rendendo quindi perseguibile di sfruttamento e di favoreggiamento anche una qualsiasi persona che faciliti il lavoro di chi sceglie deliberatamente di prostituirsi.
Il prodotto finale risulta essere confuso e a tratti contraddittorio perché configura la prostituzione come una realtà di fatto, ma non la proibisce né la consente. Considerando la prostituzione non come il frutto di una libera scelta ma unicamente come il prodotto di una realtà di sfruttamento, la Legge Merlin pone divieti che, se non proibiscono l’atto della prostituzione, lo rendono impraticabile.
La discussione odierna
Ultimamente la Legge Merlin è tornata ad essere più che mai attuale, dopo che la Corte costituzionale, nel marzo 2019, ne ha confermato la validità e la legittimità costituzionale. La complessità che ruota tuttora intorno al dibattito è probabilmente destinata a non esaurirsi, racchiudendo in sé punti di vista molto contraddittori della nostra società e riassumibili in due posizioni antitetiche: da una parte coloro che ancora oggi sono favorevoli alla prostituzione legalizzata nelle case chiuse, dall’altra coloro che ne sono assolutamente contrari.
In generale, quindi, dall’approvazione della legge Merlin, quella della riapertura delle case chiuse è una proposta che ciclicamente è venuta fuori. Ma potrebbe essere effettivamente una soluzione per combattere lo sfruttamento della prostituzione, o è solo demagogia?
Più che un tema politicamente rilevante è un’arma di distrazione di massa. Riaprire le case di tolleranza del passato non garantirebbe più sicurezza, provocherebbe solo più discriminazione, stigmatizzazione ed esclusione sociale. Ma il punto è che comunque, si immaginino delle case autorizzate, non esiste alcuna evidenza che aprendole e regolamentandole possa sparire la prostituzione di strada, perché è questo ciò che in realtà si vuole ottenere.

In Europa la situazione è molto mossa e variegata, ci sono Paesi che hanno scelto la regolamentazione, altri la depenalizzazione, altri ancora quella particolare forma di proibizionismo che è il modello svedese: punire i clienti, non le prostitute – e questo modello è stato introdotto da poco anche in Francia e in Irlanda.
Il modello a cui guardano i fautori della regolamentazione in Italia sono soprattutto Olanda, Germania e Svizzera, dove la prostituzione è legale. Però quelle normative sono state pensate per rafforzare la tutela dei diritti di chi si prostituisce, non per difendere la società dalla prostituzione. Che poi, non si può negare che, nell’applicazione, queste leggi abbiano comunque alcuni difetti.
Ma è inutile parlare a vuoto: in Italia le case chiuse non possono essere riaperte. L’Italia, infatti, nel 1949 ha firmato una convenzione con le Nazioni Unite a cui aderisce in maniera piena e attiva. Stando alla convenzione deve essere punito qualsiasi soggetto che rapisce, adesca, sfrutta un’altra persona anche se consenziente e, inoltre, non è possibile gestire case chiuse o bordelli.
Tanto l’approccio proibizionista quanto quello di iper-regolamentazione finiscono quasi sempre per aggravare la vulnerabilità di chi si prostituisce. La soluzione migliore potrebbe essere depenalizzare alcune condotte collegate a questo fenomeno per consentire forme di auto-organizzazione, di mutua assistenza, e rafforzare la posizione di chi oggi esercita questo lavoro in modo volontario, senza abbandonare alcuni principi essenziali della legge Merlin.
Parallelamente, servirebbe un impegno contro la tratta a scopo di sfruttamento sessuale, che oggi spesso si intreccia ad altri fenomeni come quello dell’asilo. Senza dimenticare che si dovrebbero affrontare le cause della prostituzione e soprattutto dello sfruttamento sessuale come le diseguaglianze economiche e sociali, le discriminazioni e le politiche delle frontiere, che costringono le donne che vogliono migrare ad affidarsi alle stesse reti che poi le sfruttano.
Dunque, la Legge Merlin è nata per arginare il fenomeno della schiavitù della donna ai fini dello sfruttamento sessuale: i frequenti tentativi di abrogarla nel corso di questi 64 anni dalla sua nascita testimoniano come la conquista dei diritti e della libertà delle donne richieda tuttora una forte mobilitazione per la sua difesa.

Il fenomeno della prostituzione in Italia, così come in Europa e nel mondo, ha subìto profondi cambiamenti con il mutare della struttura economica, della morale e dei costumi. È evidente, perciò, che la legge sia un prodotto del suo tempo, un’espressione delle tensioni della società italiana nell’immediato dopoguerra e che sia urgente una riflessione che prenda in considerazione le rivendicazioni e i bisogni delle sex workers, per un migliore adattamento della legislazione alla mutata situazione attuale.
Il percorso per garantire i diritti raggiunti, quindi, non sembra affatto concluso ed anzi lascia supporre che sia lastricato di insidie e battaglie future.
A cura di Elena Aversa.
Referenze:
https://www.altalex.com/documents/leggi/2013/10/24/legge-merlin
https://www.focus.it/cultura/storia/case-chiuse-bordelli-prostituzione-fascismo