Cosa (non) cambierà dopo il tre novembre

Il 3 novembre si vota per le presidenziali in America. Gli statunitensi saranno chiamati a votare i Great electors che, a quaranta giorni dall’elezione, potranno eleggere Joe Biden presidente degli Stati Uniti d’America, oppure riconfermare The Donald per il suo secondo e ultimo mandato consecutivo. Le elezioni del presidente della più grande potenza del mondo non passano certo in secondo piano. Tuttavia, quello che accadrà alle urne cambierà davvero poco il ruolo degli Stati Uniti sullo scenario internazionale.

Il ruolo del Presidente nella Compound democracy

Il sistema istituzionale statunitense sfugge alle tradizionali categorie di classificazione dei regimi democratici. Gli USA sono un esempio di compound democracy (Fabbrini, 2008), una democrazia composita, un regime istituzionale basato sulla legittimazione dello scontro tra autorità diverse. States, Congresso (formato da Camera dei Rappresentanti e Senato) e Presidente sono autonomi e indipendenti l’uno dall’altro: la fusione di poteri in capo al Parlamento, con la conseguente cessione di poteri esecutivi al governo tramite il voto di fiducia, meccanismo tipico delle democrazie europee continentali, è un principio estraneo al sistema americano. Il potere esecutivo è scisso tra istituzioni diverse, tutte democraticamente legittime, ma con bacini elettorali diversi: il Presidente è eletto a livello nazionale, la Camera a livello distrettuale, i senatori a livello statale. I loro poteri si reggono su un sistema di pesi e contrappesi, su un sistema di reciproco controllo e sorveglianza (Fabbrini, 2008). In questo ordinamento particolarmente complesso, i poteri presidenziali si concretizzano nella possibilità di porre il proprio veto alle proposte di legge del Congresso, ed in altre funzioni dettate dall’Articolo II della Costituzione americana: comandare le forze armate, navali e delle milizie, negoziare trattati internazionali (per i quali è necessario il consenso del Senato), nominare ambasciatori, ministri e consoli, giudici della Corte Suprema e ricevere ambasciatori e ministri.

L’evoluzione della presidency in politica estera

Il ruolo del Presidente si è evoluto nel corso del tempo. La take care clause della prima sezione dell’Articolo II è stata l’espediente utilizzato per espandere le prerogative presidenziali di decision making power(executive prerogative), concedendo la capacità di emanare decreti o regolamenti di ordine pubblico di sua iniziativa o su richiesta del Congresso in casi di emergenza e per la protezione della sicurezza internazionale. L’executive prerogative, ad esempio, ha permesso a Truman di distendere le truppe in Korea anche senza l’approvazione da parte delle Camere, precedente che ha successivamente incrementato il war power del Presidente (Bon, 2017). Il crescente potere della presidency in ambito internazionale porta a supporre che un cambio del colore politico in capo al commander in chief possa determinare un repentino ribaltamento delle posizioni che gli USA tengono nei diversi teatri regionali. In realtà, ad esempio, guardando alle strategie intraprese durante le ultime presidenze, emerge una caratteristica di lungo periodo: dalla Global War on Terror inaugurata da George W. Bush, l’uso della forza è divenuto per gli USA una variabile costante delle strategie di politica estera. Infatti, la legittimazione degli interventi statunitensi secondo il movente della guerra al terrorismo ha caratterizzato, oltre ai due mandati di Obama,anche quello di Trump, il quale ha perfino consolidato questa strategia, inserendo il nucleare tra i settori in cui la forza statunitense si declina nelle relazioni internazionali (Pastori, 2018).

Sorge naturale quindi chiedersi, alla luce delle imminenti elezioni, come – e se – gli Stati Uniti d’America cambieranno la loro posizione riguardo questioni e competitor internazionali, se la vittoria di Trump o di Biden determinerà un cambio nella strategia dell’”impero[1].

Il dragone

Lo sfidante cinese va combattuto, secondo le agenzie federali USA, vere determinanti della strategia americana all’estero, nell’arena economica: la Cina non deve accaparrarsi il primato tecnologico e commerciale. Trump continuerà a parlare del dragone come del male assoluto, mentre Biden, semplicemente, si ridurrà a lasciare intatte le tariffe, i dazi trumpiani, inscenando una timida apertura nei confronti di Pechino. La strategia di accerchiamento del nemico n°1 è determinata dalla massiccia presenza militare statunitense nei territori dei paesi dell’area cooptati agli US, soffocando i rivali cinesi in una stretta strategica (Fabbri, 2/10/2020).

Lo storico spauracchio tedesco

La Repubblica federale e le sue ambizioni di potenza spaventano le agenzie federali statunitensi. Nonostante la condivisione della stessa origine germanica, tra USA e Germania la scintilla dell’astio scoppia già nella Prima Guerra, dura pure nella Seconda e perdura fino alla Guerra Fredda. Secondo Fabbri (14/10/2020), però, da alcuni anni lo spauracchio tedesco è tornato a tormentare l’impero. La Germania sfida gli States facendosi leader del consesso europeo: dietro l’influenza economica per la pianificazione del Recovery Fund, la Germania sembra celare un obiettivo geopolitico. Trump (o meglio, l’intelligence) ritira le truppe dalla Federazione, spingendola a smascherare le sue ambizioni di potenza allarmando i vicini europei, traumatizzati dalle due Guerre. Biden (o meglio, il Pentagono) pensa sia meglio controllare da dentro la Germania: i militari statunitensi restano lì, anche perché dall’altra parte c’è Mosca. Fabbri sostiene inoltre che le milizie USA sul suolo germanico non diminuiranno, anzi, saranno meticolosamente riposizionate per schiacciare le ambizioni della Repubblica Federale: il cugino spaventa troppo per abbassare la guardia.

La Russia

Con la Russia si muovono le pedine dello scacchiere: se Mosca è stata la grande avversaria di Washington, e la Cina un’alleata dell’impero nel ’72 (Nixon goes to China[2]), adesso la Russia diventa una potenza da avvicinare in chiave anticinese (Fabbri, 8/10/2020). Eppure, questa strategia non viene adottata, nonostante sia Trump sia Biden vorrebbero avvicinarsi a Putin. Il motivo dipende da una necessità più stringente per l’America: mantenere l’Europa nella propria egida e per fare ciò, serve che la Russia stia ben lontana da possibili convergenze con Berlino, connubio che sarebbe distruttivo per gli USA. Sempre secondo Fabbri, soltanto in caso di una sino-offensiva, Washington chiamerebbe Mosca per aiuto, ma questo scenario è ben lontano dal realizzarsi. La Russia rimane dov’è, al di là dell’Europa filostatunitense, isolata e lontana, indipendentemente da Trump o Biden.

Le strategie americane nell’arena internazionale dipendono dagli interessi nazionali, la cui definizione in politica estera trascende le inclinazioni politiche e ideologiche del Presidente e degli attori istituzionali coinvolti. Esse vengono dettate secondo fattori che variano in base al ruolo giocato dagli altri competitor, all’emersione di particolari fenomeni globali, e a questioni legate ad ambiti d’interesse che, sfociando oltre il campo meramente politico, toccano quello economico, militare e strategico.

Le elezioni contano, ma non troppo in politica estera. Le strategie di politica internazionale superano le volontà dei presidenti, e mirano tutte allo stesso perdurante fine: assicurare la supremazia dell’impero.

Silvia Martella

References

Bon, C. (2017). Presidential legacies: l’eredità storica dello spazio di potere amministrativo da Reagan a Trump. In M. d. Leonardis, Effetto Trump? Gli Stati Uniti nel sistema internazionale fra continuità e cambiamento (p. 203-225). Milano: EDUCatt.

Fabbri, D. (14/10/2020). Trump e Biden hanno un approccio diverso sulla Germania, ma non dipende da loro. Limes, rivista italiana di Geopolitica.

Fabbri, D. (2/10/2020). Sulla Cina, la Casa Bianca potrà soltanto elaborare la narrazione di uno scontro già segnato. Limes, rivista italiana di Geopolitica.

Fabbri, D. (8/10/2020). L’Europa impedisce a Trump e Biden di aprire alla Russia. Limes, rivista italiana di Geopolitica.

Fabbrini, S. (2008). Compound Democracies. Oxford Scholarship online.

Pastori, G. (2018). Speak softly and carry a big stick. Politica estera e uso della forza negli Stati Uniti fra storia e attualità. In Quaderni di Scienze Politiche. Università Cattolica del Sacro Cuore. (p. 129-148). Milano: EDUCatt.


[1] Per approfondire: Lo stato dell’impero. (2019, dicembre 12). Limes, rivista italiana di Geopolitica, Editoriale del numero di Limes 12/19, America contro tutti.

[2] Per approfondire: “Nixon goes to China”. Oggi sono quarant’anni dalla storica visita di Stato da cui nacque un modo di dire molto usato nella politica americana. (2012, febbraio 21). Il Post.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...