
Hanno in media tra i 18 e i 25 anni. Sono prevalentemente uomini, ma le donne sono in aumento. Hanno conseguito in Occidente titoli di studio spesso medio-alti. Vengono reclutati in luoghi fisici di aggregazione, ma ancor più frequentemente in internet. Sono i foreign fighters.
Sono oltre 100 i loro paesi di provenienza, ed il loro numero è aumentato dal marzo 2015 del 70%. Partono da tutto il mondo verso Iraq, Siria, Yemen ed Afghanistan per combattere e contribuire alla creazione dello stato islamico.
Questo fenomeno sociale merita di essere indagato poiché, come sostiene Vera Mironova, ricercatrice del Belfer Center della Harvard University, l’identikit dei foreign fighters riflette anche molte problematiche dell’Occidente contemporaneo.
I foreign fighters sono giovani musulmani radicalizzati, spesso immigrati di seconda o terza generazione. I loro genitori o i loro nonni sono giunti in Europa e negli Stati Uniti nella seconda metà del XX secolo per ragioni comuni a molti migranti, come il desiderio di un progresso economico o di un’emancipazione sociale. L’ambiente accogliente li ha indotti a credere che dovessero rinunciare alla propria identità culturale per essere accettati all’interno della società occidentale. Hanno accettato lavori ed incarichi mal retribuiti e a volte non conformi ai propri titoli di studio o alle proprie competenze, hanno preso in affitto abitazioni ubicate in quartieri periferici, con problemi di sovraffollamento e di microcriminalità.
Gli sforzi fatti per essere accettati all’interno della società ospitante sono stati proficui?
Al contrario, questi migranti sono stati ricompensati con l’emarginazione o la segregazione, identificati da uno stigma degradante e da uno stereotipo legato esclusivamente al fatto che non fossero autoctoni, senza tenere in considerazione le abilità e competenze individuali, né tantomeno il contributo dato con il lavoro al benessere collettivo. Sono stati relegati dalla società ad un ruolo subordinato e marginale, ed hanno visto fallire tutte le proprie aspettative di avere una seconda opportunità in un paese straniero.
I loro figli ed i loro nipoti, nati in Europa e negli Stati Uniti, hanno respirato dalla nascita rabbia e frustrazione, crescendo anche loro sotto lo stigma sociale e interiorizzando il disagio di una mancata integrazione.
Una fisionomia comune si compone in realtà di un caleidoscopio di storie umane diverse, che è necessario ascoltare.
Monsef è un giovane di origini marocchine e trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Milano. È un musulmano “autodidatta”, credente ma senza alcun fervore, refrattario ad accettare la tradizione, mostra scarso zelo nella pratica. Sul piano politico ostenta una generica ostilità nei confronti dell’Occidente, accusato di creare diseguaglianze economiche e sociali in tutto il mondo. All’età di ventidue anni parte con un amico e viene reclutato dall’ISIS, forse dopo aver stretto i primi contatti in internet. Il 18 marzo 2015, mentre è in Siria, la procura della repubblica di Milano emette contro di lui un’ordinanza di custodia cautelare, con l’accusa di associazione terroristica e proselitismo sul web.
Anas, bresciano di origini marocchine, appena raggiunta la maggiore età parte come miliziano e giunge ad occupare un ruolo importante nei ranghi del Califfato; pochi giorni fa è stato condannato in contumacia a sei anni.
Fejzulai, giovane di origini macedoni nato a Mödling in Austria e vissuto a Vienna, calciatore a livelli competitivi fino all’età di sedici anni, si è radicalizzato a 18 frequentando la moschea di Vienna. Nel 2019, cercando di raggiungere la Siria per unirsi all’ISIS, viene arrestato in Turchia e rimandato a Vienna, dove viene condannato a 22 mesi di carcere. Pochi giorni fa, il 3 novembre, si è reso responsabile di un attacco terroristico a Vienna, causando la morte di 4 civili.
Qual è il filo conduttore di tutti questi casi di terrorismo tra i giovani? Chi si può ritenere responsabile?
La risposta non può che essere una: tra i responsabili figura anche la stessa società che oggi è vittima degli attentati, quella occidentale.
Alla base di questo crescente odio verso l’Europa, l’America, e tutto ciò che rappresenta la cultura occidentale, ci sono il rancore e la frustrazione causati dal modello integrazionista imposto ai migranti. Per anni, anzi per secoli, la nostra cultura ha avuto la presunzione di autolegittimarsi come modello superiore di civiltà, discriminando ogni cultura ed etnia differente, alla luce di un miope “primato dell’uomo bianco”. Una nuova forma più subdola di colonialismo che non si esplica più e non solo attraverso la conquista territoriale e lo sfruttamento economico, ma prevede un’assimilazione culturale che mortifica il pluralismo. Nell’ultimo secolo pertanto si è verificata una globalizzazione imposta in cui il modello di vivere occidentale è andato a mortificare e sopprimere la varietà culturale di continenti come l’Asia o l’Africa. Tutti coloro che sono immigrati in Europa o in America, al fine di essere accettati dalla cultura del paese d’approdo, hanno rinunciato a ciò che caratterizzava la propria cultura d’origine, ma al contempo sono stati discriminati dalla società ospitante senza riuscire ad integrarsi.
In questa sorta di limbo sociale, i migranti sono diventati quelli che il sociologo Merton avrebbe definiti “out-groups”, sottoposti insieme alle future generazioni allo stigma dello “straniero”. In questo limbo hanno trovato uno spiraglio a cui radicarsi nel “fanatismo nichilista” di cui parla il politologo Olivier Roy. Questo ossimoro rende bene il precario compromesso tra la perdita di orizzonti culturali dovuta alle forzature del modello integrazionista e un fanatismo religioso e culturale che diventa un’identità in cui finalmente riconoscersi.
Perciò quando il cancelliere austriaco Kurz ha definito l’attacco a Vienna “un attacco d’odio. Odio per i nostri valori fondamentali, odio per il nostro modello di vita, odio per la nostra democrazia”, non ha considerato che alla base di questo odio non vi è altro che l’imposizione forzata di un modello di vita e di valori avvertiti come prevaricanti e violenti.
Cosa può fare dunque la nostra società per risolvere il problema? Imparare a comprendere lo straniero per ciò che è, e non alla luce dei propri valori. L’obiettivo comune e condiviso deve essere quello di un’inclusione che, come ci chiede l’Agenda 2030, sia fondata su una riduzione delle disuguaglianze. La nuova globalizzazione non deve dunque essere basata su una omogeneità culturale su base occidentale, ma su un multiculturalismo inclusivo.
Articolo a cura di Adriano Belfiore
RESOURCES:
G. Cerino, “Stanno tornando I foreign fighters jihadisti, raccontati dalle loro madri”, Roma, DeriveApprodi, 2018
A. Meringolo, G. Cerino, “Isis: il rimpatrio dei foreign fighters spaventa l’Europa”, www.affarinternazionali.it , 12 Dicembre, 2019
F. Milan, “Isis e foreign fighters, perched l’Europa non è ancora al sicuro”, www.formiche.net , 26 Luglio, 2020
F. Tonacci, “Attentato a Vienna, il terrorista faceva parte dei Leoni dei Balcani”, La Repubblica, 7 Novembre, 2020