The Journal x Indomita Donna è lieto di presentarvi il quarto appuntamento della rubrica dedicata ai testi degli studenti del laboratorio di scrittura accademica della Professoressa Salvini. Quest’anno gli studenti del laboratorio hanno redatto, per uno dei moduli del corso, dei testi persuasivi il cui obiettivo era mettere in discussione gli stereotipi di genere che purtroppo sopravvivono nella nostra quotidianità.
Oggi vi proponiamo due nuovi testi: entrambi vertono sugli stereotipi di genere che vedono la donna come un essere debole, non in grado di uscire dagli schemi dettati dalla società. Infatti, mentre il primo ritrae una figura femminile che si adatta a determinate circostanze perché non vi trova uscita, il secondo al contrario dipinge il ritratto dell’essere superiore, che vuole sopraffare sui più deboli uscendone il più delle volte come un vincitore.
Poca pratica, scarsa manualità, grande difficoltà
Il ritratto di una creatura da aiutare…
Le donne vengono spesso descritte in questi termini, soprattutto quando le si osserva mentre svolgono attività manuali considerate maschili, ad esempio una donna che assembla un mobile da sé, utilizzando strumenti tecnici come chiavi inglesi o viti, viene spesso considerata artefice di una grande impresa lontana da quelle che sono le competenze attribuitele dall’opinione comune in quanto donna.
La figura di “donna”, anche la parola stessa, porta con sé e sottintende nella maggior parte delle società anche i ruoli attribuiti alla figura femminile tradizionale, tanto che spesso si trova difficoltà nel tradurre in alcune lingue il concetto di “donna”, poiché è difficile da svincolare da quello di madre, moglie, figlia. Ad esempio la parola “donna” in spagnolo “mujer” o portoghese “mulher” risalgono entrambe dal latino “mŭlĭĕre” da cui anche moglie.
Pensate alle volte in cui si dà per scontato – e dunque non viene apprezzato – il fatto che una donna tenga pulita la casa semplicemente perché le fa piacere. Pensate alle volte in cui una ragazza è rimasta a casa perché non c’era nessuno disposto a riaccompagnarla, mentre il fratello è libero di uscire. Pensate alle volte in cui una donna si è sentita giudicata per aver scelto di non voler avere figli, perché ciò viene visto più come un fallimento che come una decisione consapevole.
Da un piccolo gesto della quotidianità, come comprare a una bambina una bambola per giocare e a un bambino i soldatini; fino a un gesto più eclatante, come il dare per scontato che una donna debba scegliere nella vita di formare una famiglia con bambini da accudire, capiamo quanto, anche involontariamente, facciamo rifermento come società a un modello di donna ben definito entro certi ruoli che fin da piccole assimiliamo come fossero naturali.
Come un liquido che prende la forma del contenitore in cui viene versato così siamo spesso portate a seguire i passi di chi ci ha precedute e assumere i ruoli che la collettività e i giudizi altrui ci indicano come nostri, come più giusti per noi. Come se bastassero delle semplici consuetudini a definire le infinite sfumature di una spiccata personalità che ha voglia di realizzarsi e trovare la propria strada.
Nessuno di noi nasce con un’etichetta con scritti i limiti entro i quali dare spazio alla propria creatività e alla sua personale inventiva, le possibili strade da intraprendere sono innumerevoli, tutte egualmente rispettabili e dignitose, sia che le intraprenda una donna o un uomo.
E la voglia di non essere relegati in quanto persone a un percorso ben definito da una società troppo spesso retrograda e restia al cambiamento merita di essere premiata con la realizzazione del percorso che sentiamo più affine, alla faccia dei pregiudizi.
Voglio essere libera di scegliere la mia strada e gridare al mondo chi sono.
Testo di Claudia Martinelli
Pacatezza non è sinonimo di Debolezza
Presunzione, ragione, sopraffazione, così tratteggerei i lineamenti del “prevaricatore” nelle discussioni fra amici o di altro tipo;
Dalla personalità forte, colui è una figura che pretende di avere sempre ragione ovunque si trovi.
Nella società contemporanea le conversazioni e i dibattiti stanno sempre più venendo meno di significato, sempre più di frequente si assiste a conversazioni sterili, esautorate, prive di contenuto, tutto ciò a discapito di modi sempre più sopraffattori e presuntuosi al fine di ottenere una vuota ragione, effimera e priva di senso, solo per il gusto di ottenere approvazione sociale negli uditori.
Ma come mai prepotenza e veemenza espressiva riscuotono questo successo fra i presenti e appaiono spesso legati ad una maggiore coerenza di pensiero?
Come mai la pacatezza sembra essere sinonimo di debolezza?
E come mai le ragioni delle persone considerate “deboli” finiscono per sopperire a quelle altrui?
Veemenza-pacatezza, un binomio che troppo spesso sembra rispecchiare quello fra Giusto-ingiusto; è incredibile davvero come la prepotenza e la veemenza nell’esprimere i propri pensieri troppo spesso venga associata agli occhi degli interlocutori ad una maggiore coerenza e logicità del pensiero stesso, nonché ad una maggior “giustezza” dei contenuti proposti.
Molte volte mi chiedo se è così che si discuta?
Molte volte mi chiedo come si possa accettare un tale comportamento in una conversazione; ma ancora più spesso mi chiedo come sia possibile questa supremazia della forma sul contenuto, come sia possibile che il “prevaricatore” appaia sempre nella ragione, pur nella piena consapevolezza che le argomentazioni portate da entrambi gli interlocutori siano egualmente valide.
È evidente che non sia così, è evidente che si tratti di “vuoti urlatori”, senza un briciolo di cervello.
È evidente; “sopraffare, un vano argomentare”.
Testo di Andrea Pino