Poco noto, ma presentato dal MIUR già da 4 anni circa (il 27 ottobre 2017), è il Piano nazionale “per promuovere nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione al rispetto, per contrastare ogni forma di violenza e discriminazione e favorire il superamento di pregiudizi e disuguaglianze, secondo i principi espressi dall’articolo 3 della Costituzione italiana”; un piano che, come altri documenti pubblicati dalle varie Amministrazioni dello Stato, si pone l’obiettivo di assicurare una comunicazione garante dell’uguaglianza di genere. Missione che in realtà rischia di essere unicamente “di facciata” in un sistema educativo, pilastro della socializzazione primaria, in cui gli insegnanti scoraggiano, volontariamente o inconsciamente, le studentesse dall’intraprendere alcuni percorsi educativi quali le lauree STEM.
Diceva Agatha Christie: “la parola è un’invenzione dell’uomo che serve a impedirgli di pensare”. L’uso di un linguaggio che veda come costante la pratica del maschile universale ha progressivamente bloccato il nostro ragionamento sulla società e sull’uguaglianza di genere.
Infatti, ad oggi è sempre più evidente come il linguaggio del discorso pubblico, compreso quello impiegato dalla pubblica amministrazione, fatichi ancora a seguire il dinamico processo di sensibilizzazione e presa di coscienza circa la problematicità del maschile universale. Conseguenza naturale di questa pratica è che essa contribuisca a congelare implicitamente i rapporti di forza tra i due sessi. Il paradosso è evidente. Ognuno di noi, infatti, ha imparato ad usare il linguaggio fin da bambino in un sistema scolastico che volendosi inclusivo e aperto a tutti, così come recita la nostra Carta costituzionale, si pone come obiettivo precipuo quello di favorire il progresso.
Tuttavia, dal punto di vista sociale, il progresso, per sostanziarsi, necessita che si vada oltre. Infatti, se la bellezza del linguaggio risiede nella sua dinamicità, per sua stessa natura esso è ben lontano dalla cristallizzazione. Infatti, la rinnovata sensibilità circa la tematica di genere, unita alla consapevolezza che la storia ed i suoi eventi prendano costantemente parte alla creazione di ideologie che possano innovare la comunicazione, determina la necessità di un aggiornamento del linguaggio. Un tale processo si configurerebbe come adattamento, il quale, se non rinnegato, ma anzi accolto nei suoi plurimi spunti, sarebbe capace di concepire il cambiamento sociale in maniera trasversale. In tale modo il linguaggio può procedere parallelamente modellandosi esso stesso alle esigenze imperative comuni.
è dunque su questo orizzonte che si staglia l’attenzione all’inserimento dell’uso del genere nel linguaggio amministrativo, infatti, l’atto di sindacato ispettivo n. 1/00107 del Senato della Repubblica (2007) presentato dalla senatrice Alfonzi dispone che “Il senato (…) impegna il Governo ad introdurre negli atti e nei protocolli adottati dalle pubbliche amministrazioni una modificazione degli usi linguistici tale da rendere visibile la presenza di donne nelle istituzioni, riconoscendone la piena dignità di status ed evitando che il loro ruolo venga oscurato da un uso non consapevole della lingua”.
Inoltre, a fronte della riforma del Titolo V, varie sono state le amministrazioni pubbliche impegnatesi nella revisione della documentazione dei loro uffici. Tuttavia, è stato posto in evidenza che l’abolizione del maschile universale e la sua sostituzione con le due forme, maschile e femminile, non possa avvenire in maniera meccanica poiché la struttura testuale deve rimanere fruibile e leggibile, con l’obiettivo ultimo di conservare e preservare la capacità comunicativa. L’uso delle due forme, infatti, rischia di appesantire il testo, il che lascia facilmente aperta una riflessione sulla lentezza burocratica generale dei processi di revisione, è quindi per tali ragioni che plurimi sono gli studi inerenti la messa in atto di strategie necessarie all’uso del genere grammaticale per referenti femminili e maschili. Tra esse il cosiddetto “oscuramento” realizzabile attraverso meccanismi logici e sintattici che facciano riferimento ad una pluralità senza indicazioni sul sesso, evitando l’uso imperante del maschile inclusivo.
Nonostante la tendenza degli apparati amministrativi all’impiego di un linguaggio che sia propriamente inclusivo, l’impianto in parola difetta di effettive misure che riescano a rendere pienamente esecutive le varie norme a favore di detta inclusività. In ultima istanza, dunque, a causa dell’immobilismo degli apparati amministrativi, la questione rimette l’implementazione di cambiamenti reali alla discrezione dell’opinione pubblica. Pertanto, la sensibilizzazione capillare della società civile si rende necessaria non solo ai fini di detta implementazione, ma anche allo scopo di rendere sempre più rilevanti tali tematiche al fine di potersi costituire come vero e proprio advocacy group.