A PRESCINDERE DA TUTTO. IL TUO RIFLESSO IN UNO SPECCHIO, NON RACCONTA NULLA DELLA PERSONA CHE SEI, NON DESCRIVE LE TUE EMOZIONI, NON TI RAPPRESENTA.
C’È UN MONDO OLTRE IL NOSTRO SGUARDO.

Cosa nasconde talvolta, la nostra immagine riflessa nello specchio? Un turbinio di emozioni, un insieme di violente contraddizioni, disprezzo innato verso ciò che siamo. Una percezione di noi stessi completamente opposta da ciò che siamo realmente, che può derivare da tanti piccoli, complessi fattori che distorgono la nostra immagine in maniera prepotente, al limite dell’assurdo. Chissà da dove nasce tutto ciò. Chissà se da un trauma infantile, da una presa in giro esagerata, da una mancanza di autostima. Chissà perché alcune persone, in un modo o nell’altro, vengono private di ammirare l’aura di meraviglia che emanano, private del loro sorriso, della consapevolezza di essere uniche e speciali.
Chissà perché, alcune persone vengono private della vita stessa in maniera metaforica, della bellezza di provare emozioni, per paura di non meritarsele, prima tra esse la felicità.
Questo è un disturbo alimentare. Questa è una delle più crude forme di odio verso il proprio corpo che una persona può sviluppare. Questo, rappresenta ancora oggi, purtroppo, uno dei più grandi tabù della società odierna.
“Ma dai, basta mangiare un piatto di pasta in più e starai meglio!”, “Ma non ti lamentare, magari io potessi riuscire a non mangiare!”, “Non sei abbastanza magra, non soffri realmente di un disturbo alimentare”. Quante volte queste frasi risultano essere inadatte, quanta disinformazione dimostrano ancora nella nostra società, seppur ci si stia impegnando sempre di più alla conoscenza, all’affrontare tali tematiche così delicate: anoressia non significa necessariamente essere sottopeso, come bulimia non significa per forza abbuffarsi, come entrambe non significano “capriccio”.

Ci sono concetti molto più profondi aldilà di queste semplici denominazioni mediche, ci sono persone, ragazze e ragazzi, che ogni giorno combattono una guerra silenziosa, che non si arrendono, che sorridono sebbene spesso non siano consapevoli del peso che portano sulle loro spalle.
E no, un disturbo alimentare non deve essere inteso come una mancanza di rispetto verso la nostra esistenza, come un tentativo di attirare l’attenzione a scopo narcisistico; esso è molto di più, la punta di un iceberg che nasconde purtroppo molto spesso un passato fragile, pesante, ricordi duri e scomodi che invadono la mente e tentano di distrarla dalla meraviglia della vita vera del presente e del futuro.
Se fino ad oggi ad essi non veniva però attribuita l’importanza che meritano in Italia, dal Dicembre 2021, grazie all’associazione “Mi nutro di vita”, all’operato dei maggiori rappresentanti di quest’ultima, come Stefano Tavilla, Maruska Albertazzi e Leonardo Mendolicchio, e alla particolare attenzione del Presidente Mattarella per tale importantissima tematica, i disturbi alimentari sono stati finalmente riconosciuti nei “L.E.A”, ossia i “Livelli Essenziali di Assistenza”, prestazioni e servizi che il Sistema Sanitario Nazionale è tenuto a fornire, senza spese aggiuntive. Tutto è partito da una semplice petizione che è stata poi valutata dal Senato, ed infine riconosciuta. Un traguardo immenso, duraturo, una luce in fondo ad un tunnel terribile, all’interno del quale soprattutto dopo il lockdown causato dalla pandemia di Covid-19, troppe persone tendono a cadere, a causa della solitudine, del dolore, della violenza psicologica del terribile periodo storico che stiamo attraversando, e per tante altre milioni di problematiche di differente origine ed entità.
“Non possiamo lasciare queste persone sole ed abbandonate al proprio destino”, hanno affermato alcuni senatori che hanno votato in diretto favore del provvedimento. Si tratta a volte di un destino crudele, un destino fatale per coloro che non riescono a vincere questa dura battaglia contro questo terribile mostro.
Ma alla luce di questi eventi, è giusto che sia data voce a tali disturbi, alla loro grandezza, alla potenza che hanno nelle persone fragili ma soprattutto in quelle più forti, il cui dolore interno mai dimostrato, sfocia in tale maniera, riflettendosi sulle esistenze del singolo.
E allora informiamoci, prendiamo per mano queste persone, non abbiamo paura di conoscere il diverso ma anzi, domandiamo, apprezziamo, dedichiamo a ciò che non conosciamo. Soffrire di un disturbo alimentare significa non saper più riconoscere un sorriso, non saper più apprezzare un istante nel suo valore vero, non saper più condividere la gioia di vivere assieme alle persone che si amano.

Significa vivere da spettatori la propria esistenza, restare in panchina mentre la partita è nel vivo, dimenticarsi quanto sia bello osservare un cielo azzurro dopo la pioggia. Ma forse, non è tutto perduto. Perché oggi, quell’appello delle persone che necessitano di cure, di amore, di ciò che finora era solamente un utopico pensiero è arrivato all’alto, si è trasformato in legge, forse fin troppo tardi per un paese progressista come il nostro, ma ciò che è fondamentale è che il traguardo sia stato raggiuto, e che ora la speranza abbia un sapore differente, più solido e veritiero.
E allora è giusto credere che combattere ha un senso, che non esiste un perché adeguato che possa spiegare un disturbo alimentare, talvolte se ne comprende l’origine ma non se ne conosce la fine, talvolta lo si vive da spettatori stando accanto a chi ne soffre, accompagnandolo nella “scalata”, talvolta da protagonisti, a volte privi a volte con consapevolezza. Ma un disturbo alimentare non è una taglia 38, pochi chili sulla bilancia, non si tratta di una scelta, di uno stereotipo.
C’è un mondo dietro essi da scoprire, per lottare, per sopravvivere, per credere che forse un giorno essi saranno, per chi ne soffre, soltanto un lontano ricordo; e ora che ciò è diventato ancor più forte di fronte alla nostra legge, agli occhi della nostra politica, ci auguriamo che il panorama, dopo la difficoltà della scalata, possa essere magnifico per coloro che riusciranno a vincere la loro battaglia, non arrendendosi mai.
A cura di Giulia Galletti