Potrà mai la lotta tra ordine cinese e libertà americana armonizzarsi in una sicura pace extra-culturale?

“La mia tesi è che, in questo nuovo mondo, l’origine principale del conflitto non sarà anzitutto ideologica o economica. Le maggiori divisioni all’interno dell’umanità saranno di tipo culturale. Lo scontro delle civiltà dominerà la politica globale”

Le parole di Samuel Huntington, professore dell’Università di Harvard, pubblicate su Foreign Affairs nel celebre articolo The Clash of Civilizations? (1993), offrono un interessante spunto d’analisi dell’odierna dinamica di rivalità tra le due potenze di Stati Uniti d’America e Cina. Il riconosciuto antagonismo sino-americano trae la propria ragion d’essere nella travolgente ascesa della Repubblica Popolare Cinese, registrata su più livelli a partire dal periodo successivo alla guerra fredda: una crescita a ritmi talmente elevati da non concedere agli Stati neanche il tempo di sbalordirsi, a tal punto da attestarsi come principale sfida alla supremazia americana e al suo consolidato ordine internazionale. 

A mio avviso, sarebbe alquanto erroneo limitare l’analisi del conflitto alla sola logica realista dell’hard power e dei mutui bilanciamenti interni ed esterni tipici del meccanismo del balance of power. Risulta infatti essenziale operare un ampliamento di prospettiva, che inglobi la dimensione del soft-power, quale potere cooptativo, culturale e multidimensionale, e che si affianchi alle tradizionali dinamiche politiche, economiche e militari. Attraverso l’utilizzo di questo diverso approccio d’analisi, suggerito dallo stesso Huntington, l’attuale conflitto sino-americano assumerebbe la forma di uno scontro di civiltà, caratterizzato da un’acutissima divergenza culturale e valoriale, difficilmente sanabile. Tuttavia, questo proposito non deve essere travisato come lettura della rivalità in chiave esclusivamente culturalistica, ma inteso come un diverso e piuttosto sottovalutato inquadramento. 

Sulla scorta dell’analisi di Huntington, la fine della guerra fredda e del suo ordine internazionale bipolare ha provocato il tramonto dell’Occidente, la crescita della Cina, dell’India e del Sud-Est asiatico e il contestuale riemergere di linee di divisione tra paesi più ricalcate, modellate sulla base di quei raggruppamenti umani di lenta formazione, noti come civiltà. Tali linee di confine hanno suddiviso inevitabilmente il mondo secondo una logica di accentuata collaborazione fra simili ed inimicizia fra dissimili: è sotto questa seconda voce che deve essere collocato il rapporto tra civiltà confuciana e civiltà occidentale, a cui si ascrivono rispettivamente Cina e Stati Uniti d’America. È proprio la disgiunzione di queste due civiltà inconciliabili, identificata in fattori più o meno oggettivi come la lingua, la storia, il livello di identità culturale, la religione e l’autoidentificazione soggettiva delle persone, a rendere il riavvicinamento tra le due potenze assai difficile da attuare. 

Pur rappresentando due visioni del mondo antitetiche, le due civiltà condividono un medesimo complesso di superiorità: se da una parte, gli Stati Uniti d’America custodiscono gelosamente il loro primato sulla scena mondiale, in quanto creatori dell’attuale ordine liberale internazionale, dall’altra, la Cina si dipinge come centro dell’universo, esigendo il proprio posto al sole, come la Germania di Guglielmo II, attraverso uno stravolgimento dello status quo. 

Nonostante la comune ambizione di egemonia, è senza dubbio necessario soffermarsi sui principali elementi di discordanza, che rendono insostenibile la reciproca convivenza: primo fra tutti, la contrapposizione tra i valori politici fondamentali. Mentre l’ethos confuciano individua come proprio fondamento il concetto di ordine, garantito dall’autorità e dalla gerarchia, nonché dalla supremazia dello Stato sulla società e sull’individuo; quello occidentale santifica la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, l’individualismo e la propensione a diffidare dello Stato. Oltre a ciò, Cina e Stati Uniti ricalcano due forme di civiltà dagli aspetti comportamentali ben differenti nei confronti degli stranieri: ad una cultura confuciana che definisce l’identità in termini razziali e che tende ad essere profondamente esclusivista, si contrappone una società americana dal carattere inclusivo, che concede benevolmente agli immigrati l’opportunità di divenire americani e contribuire alla crescita economica del paese. Da non sottovalutare è anche la diversa scala temporale a cui entrambe le civiltà fanno riferimento a livello strategico: la Cina tende a pensare l’evoluzione della propria società in termini di secoli e millenni e a privilegiare una strategia della pazienza che concepisca le sfide come cicliche e a lungo termine. Una dimostrazione di ciò è riscontrabile nell’approccio adottato da Deng Xiaoping verso le Isole Senkaku, questione di conflitto con il Giappone rinviata ad una risoluzione futura. 

Al contrario, la civiltà occidentale ostenta una propensione predominante a dimenticare il passato, ignorare il futuro e concentrarsi a sfruttare al massimo i successi a breve termine: non è perciò casuale l’appellativo di Stati Uniti d’Amnesia. Fonte d’opposizione sono inoltre il concetto e la forma di governo adottati da ambedue gli Stati: l’indispensabilità del governo nella concezione confuciana e, più nello specifico di un autoritarismo reattivo, discorda particolarmente con l’idea occidentale di governo come male tollerabile nella sua forma migliore, ovvero nelle vesti di una repubblica democratica, protettrice degli intangibili e inalienabili diritti individuali. 

È poi imprescindibile evidenziare il diverso modello di civiltà che le due potenze incarnano e che, a mio parere, costituisce la maggior criticità del loro rapporto: come nazione missionaria, gli Stati Uniti sono convinti che i diritti umani e la democrazia siano aspirazioni universali, da diffondere in tutto il mondo con il supporto di una spinta imperialistica. Quest’ambizione risulta intollerabile per la Cina, che, da nazione inimitabile, non nutre alcun desiderio di provare a convertire gli altri popoli ai suoi valori, talmente ammirevoli da innescare un processo di imitazione spontanea. 

Alla luce di queste considerazioni, è quindi chiaro che l’antagonismo sino-americano non sia dettato soltanto dalla legittima richiesta di controllo della Cina sulle questioni interne all’Asia e dalla sua rivendicazione di sovranità nel Mar Cinese Meridionale ed Orientale, tanto osteggiata dagli Stati Uniti; ma da una più profonda discrepanza che riguarda le rispettive visioni del mondo e progetti a lungo termine. Infatti, se da un lato gli occhi americani inorridiscono di fronte alla soppressione cinese dei diritti individuali e non riconoscono la legittimità politica del suo governo, dall’altro la politica estera del Regno di Mezzo demonizza il sogno illusorio degli Stati Uniti di creare uno Stato di diritto internazionale a propria immagine e somiglianza, il quale ha trovato la sua concretizzazione più simile nell’attuale ordine internazionale, di cui essi possiedono senza dubbio l’egemonia. 

Quanto esposto non intende definire inevitabile una guerra tra Cina e Stati Uniti: tuttavia, per quanto proficui possano essere le vicendevoli accettazioni delle loro richieste e i compromessi concordati in riferimento agli obiettivi politico-militari ed economici e alle aspirazioni di dominio, la sotterranea e tacita divergenza storico-culturale tra le due potenze continuerà a rappresentare la miccia per lo scoppio di un possibile scontro aperto. Qualora la Cina non accetti di concepire una cosmologia in cui vi siano due soli e gli Stati Uniti non si arrendano all’idea di convivere con un’altra superpotenza, allora la tensione latente esercitata dall’abissale differenza culturale si limiterà prima a modellare la diplomazia futura, per poi esplodere in un conflitto armato che, nel peggiore dei casi, assumerà la forza di un’accidentale esplosione nucleare. 

Preso atto di ciò, è auspicabile che le due potenze antagoniste, aumentino i livelli di dialogo reciproco e di scambio di civiltà, disinnescando in via definitiva la minaccia di uno scontro terribilmente fatale, dettato in maniera preponderante dalla teoria della superiorità culturale. Soltanto l’adozione di queste misure e il riconoscimento della reciproca legittimità civile e culturale, sancito da una pace che valichi i confini delle divergenze identitarie, potrà scongiurare la degenerazione dell’attuale guerra fredda di diverso tipo, così come la definisce Zeno Leoni, professore del King’s College di Londra, in un conflitto militare dichiarato. Questo è quanto il Presidente Xi Jinping ha sostenuto alla Conferenza sul dialogo delle civiltà asiatiche di Pechino, illustrando quattro idee volte a promuovere il dialogo tra civiltà: il rispetto reciproco e la parità di trattamento, la convivenza armoniosa, l’apertura, l’inclusività e l’apprendimento reciproco tra civiltà; e la reciproca necessità di stare al passo con i tempi. 

Unicamente accettando queste direttive e tentativi di conciliazione, si scongiurerà il rischio che una nuova bocca ripeta le parole pronunciate dal cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg a seguito dell’efferata prima guerra mondiale: Ah, se solo l’avessimo saputo.

A cura di Beatrice Siciliano

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