“Gli uomini saggi evitano di pronunciarsi sulle donne”. Le parole di Samuel Butler al giorno d’oggi sembrano invecchiare tremendamente bene. Focalizzando lo sguardo sulla nostra penisola, il dibattito pubblico preso in ostaggio da crisi strutturali come quella epidemiologica o energetica, seguite da un atavico senso di insicurezza ed apprensione per ciò che accade in Ucraina, sembra non trovare più spazio per riflessioni che dal punto di vista culturale e soprattutto sociale si accumulano nella cantina delle cause perse.
Alcuni temi con il tempo sbiadiscono, prendono polvere ed infine vengono abbandonati. Altri, adornati da un mantello di ipocrisia della peggior fattura, affiorano puntualmente solo in condizioni simbolicamente prestabilite seguendo un binario che in breve tempo è destinato ad arrugginirsi in attesa della prossima fermata. La giornata dell’8 marzo, agli occhi dei due ragazzi che oggi vorrebbero aprire una piccola finestra di riflessione, sembra a malincuore uno di questi.
Perché? La risposta è che noi uomini, custodi di un millenario dominio patriarcale che ancora non abbiamo il coraggio di abbandonare, crediamo (o fingiamo di farlo) che una mimosa possa essere un economico pezzo di ricambio rispetto al dispendioso interrogarsi, dialogare e riconoscere un sequestro di dignità che ancora oggi affligge il genere femminile. Ed è per questo che anziché parlare per l’oppressa, alimentando una pratica irritante ed inevitabilmente parziale, oggi cercheremo di mandare un messaggio all’oppressore che è in tutti noi, che ogni giorno cerca di convincersi che questi temi sono superati, che ormai non esistono più pratiche discriminatorie, che arriccia il naso quando legge la parola femminismo, che ancora non capisce che lottare per la libertà altrui non significa dover sacrificare la propria.
Il femminile come altro dalla norma (maschile) nella cultura occidentale
La forma più radicata di violenza degli uomini sulle donne, prima ancora che fisica, economica o giuridica, è epistemica: legata cioè al modo con cui il senso comune, dominato dal maschile, definisce e si rapporta ai sessi. Nella storia del pensiero (maschile) occidentale e non questa colonizzazione concettuale del femminile da parte degli uomini è evidente.
Aristotele, colui che forse più di tutti ha influenzato il pensiero occidentale, sosteneva che la donna è un uomo mancato, un essere la cui esistenza era funzionale al benessere degli uomini. È interessante notare che per indicare l’uomo Aristotele utilizzi il termine antropos, solitamente tradotto con “ essere umano”, con la logica conseguenza di identificare il sesso maschile come la normalità nel genere umano, e quello femminile come l’alterità, l’eccezione, ciò che è diverso dal normale. È inoltre noto il mito biblico secondo il quale la donna sarebbe stata creata da una costola di Adamo affinchè gli facesse compagnia. Insomma, la donna è creata dall’uomo e per l’uomo. Se si assumono il pensiero aristotelico e quello cristiano come i cardini della filosofia occidentale possiamo comprendere come gli uomini si siano sempre adoperati per definire quella femminile come un’ esistenza priva di autonomia ontologica, qualcosa che esiste in funzione dell’uomo. Il genere maschile si è eretto a normalità universale (l’italiano, lingua che non prevede il genere neutro, adotta il maschile per indicare le situazioni in cui il sesso non è specificato), concependo la donna come una costante eccezione, qualcosa di altro rispetto alla norma, posta in uno stato di subalternità.
Questa logica, seppur arcaica e apparentemente inconcepibile, domina ancora i nostri discorsi ed il nostro senso comune. In questo articolo cercheremo di indagare come anche il pensiero progressista spesso usi un linguaggio che tende a concepire desideri, diritti e atteggiamenti delle donne a partire dallo standard maschile e in funzione di questo. Ci sforzeremo di decostruire le narrazioni dominanti relative ad alcune questioni di attualità che interessano il rapporto tra i sessi. Chiaramente, non possiamo che limitarci ad offrire degli esempi, senza alcuna pretesa di completezza, che speriamo possano fungere da spunti per più ampie riflessioni.

Identità e crisi del maschile
Il tema dell’identità, che riprenderemo prossimamente, è intrinsecamente legato al nostro discorso. Il motivo è molto semplice: il successo delle grandi mobilitazioni di massa degli anni ’70, grazie al cosiddetto “femminismo della seconda ondata”, ha stravolto i cardini di un senso comune attraverso il quale ogni uomo aveva ogni giorno davanti a sé una sicura guida, un piccolo manuale di istruzioni da consultare per essere certo di venir riconosciuto come “normale”. Gli ingredienti per ottenere un vero uomo erano molto semplici: virilità, forza, orgoglio, spirito agguerrito. Seguiti da altrettanti divieti: non è concesso piangere, non è ammessa alcuna manifestazione di debolezza, bisogna abbandonare ogni emozione che non alimenti la propria lotta contro una vita spietata da affrontare a pugni chiusi.
Tutte queste massime ovviamente reggevano se la controparte femminile accettava di doversi occupare dei compiti e mansioni precluse ad ogni buon uomo che si rispetti. Ma cosa succede se ad un certo punto si riceve un secco “no”, un Grande Rifiuto (riprendendo il celebre termine di Herbert Marcuse) che riconosce e denuncia un sistema fondato sull’oppressione ingiustificata? Cade il castello di illusioni e sicurezze che lega a doppio nodo il sistema patriarcale all’identità maschile provocando quella che lo storico Sandro Bellassai definisce chiaramente come un identità maschile “debole”.
Mezzo secolo è trascorso da questi fatti, eppure sembra che questa crisi del maschile continui ad imperversare, alla ricerca di un comodo percorso che riesca ad evitare qualsiasi ostacolo o difficoltà nella ricerca del proprio sé. Durante questo periodo, sono state costruite forme di inclusione “formali” del femminile all’interno della sfera pubblica. Occorre tuttavia osservare come nella società post-patriarcale si costituiscano forme di discriminazione che la sociologa Anna Simone definisce di “sessismo democratico”: strutture di dominio insite nelle pratiche e nei discorsi, apparentemente progressisti, egemoni a livello culturale.
Questione di cruciale importanza per gli anni a venire sarà riconoscere, denunciare e superare queste silenziose ma efficaci forme di dominio.
La questione del seno
La questione del seno è particolarmente esplicativa se vogliamo smascherare il sessismo metodologico nell’approccio ai nostri corpi. Da tempo alcune femministe rivendicano di poter mostrare liberamente il loro petto quanto possono farlo gli uomini, con prevedibili quanto diffuse reazioni scandalistiche. Queste reazioni si fondano sull’idea secondo la quale il seno, pur non essendo propriamente un organo sessuale, costituisce un chiaro indizio di “sessualità femminile”, come se le donne avessero un organo “sessuato” in più rispetto agli uomini, da censurare. Premesso che il seno non ha alcuna funzione propriamente sessuale, e che può costituire un fattore di attrazione sessuale tanto quanto possono farlo gli occhi, le labbra o le gambe, questo discorso presuppone l’idea che il numero di organi sessuati “standard” sia fissato dal corpo maschile. Si dà per scontato che siano le donne ad avere qualcosa in più rispetto al corpo normale (quello maschile), e non gli uomini ad avere qualcosa in meno. Ancora una volta il maschile fissa la norma, il femminile costituisce l’anormalità, nonostante le donne nel mondo siano più degli uomini.
Potremmo inoltre aggiungere che, nel caso dei genitali, quando è il corpo femminile ad avere “qualcosa in meno” spesso il discorso viene ribaltato (si veda l’invidia del pene di freudiana memoria), con non poca ipocrisia da parte degli uomini.
Questo non significa certo che vogliamo suggerire alle donne come vestire: cosa indossare deve rimanere una scelta personale il più possibile scevra da condizionamenti di sorta, che nelle società post-patriarcali si costituiscono anche sotto forma di mercato dell’ immagine e della corporeità sui social. Vogliamo semplicemente decostruire un sistema epistemico per il quale l’uomo si “normalizza” e la donna è per definizione deviante.

La colonizzazione del corpo e dei diritti delle donne
La legge 194 del 1978, che disciplina l’aborto, può a ben merito essere considerata un passaggio fondamentale del femminismo italiano. Premettendo che di fronte agli attacchi reazionari e conservatori che vorrebbero tornare al precedente divieto oggi è fondamentale difendere quella legge e il diritto all’aborto, vogliamo sforzarci di decostruire il significato di quel testo, mostrando come rappresenti in realtà una conquista soltanto parziale. Crediamo infatti che il concetto di “diritto all’aborto” sia di per sè problematico, e piuttosto bisognerebbe parlare di libertà sessuale e riproduttiva della donna, insomma la libertà della donna di decidere se e come avere rapporti sessuali e se essere fecondata o meno.
Nel 2022 esistono tutti gli strumenti sanitari per far si che una donna che non desidera gravidanze possa avere una regolare vita sessuale senza rischiare di rimanere incinta. Tuttavia, la maggior parte delle volte in cui queste precauzioni non vengono usate è per volere del maschio, o per una educazione sessuale della donna che risulta essere insufficiente proprio perchè tarata sul modello del piacere sessuale maschile. È infatti innegabile che è a causa del godimento sessuale maschile che la donna viene ingravidata anche quando non desidera esserlo. Se assumiamo che le donne che desiderano avere figli e cambiano idea durante la gravidanza sono una minoranza rispetto al totale delle donne che abortiscono, è ragionevole pensare che le donne rimangono incinte e abortiscono per lo più senza volerlo, e questo per il piacere maschile. Il fatto che molte donne vengano ingravidate contro la propria volontà riproduttiva costituisce una forma di violenza maschile.
Riteniamo sia dunque preferibile una depenalizzazione dell’aborto, che sarebbe quindi regolarmente praticabile (come è giusto e necessario che sia), senza neanche il gravissimo impedimento pratico dell’obiezione di coscienza, istituito proprio dalla legge 194. Questa posizione nel ‘78 era sostenuta da molti collettivi e gruppi femministi che si opponevano alla legalizzazione, prevedendone le problematiche.
Politica e linguaggio
Ancora oggi sussistono a livello simbolico e linguistico degli espedienti che, se a primo impatto possono apparire come manifestazioni di inclusività, risultano ad una più attenta lettura come reflussi nostalgici di secoli di annichilimento dell’Altra.
Prendiamo ad esempio il dibattito che si era creato attorno all’elezione del Presidente della Repubblica: durante le lunghe giornate “preliminari”, prima che iniziasse l’iter procedurale ufficiale, era normale leggere sui quotidiani o ascoltare al telegiornale alcuni nomi che potevano ambire alla carica più alta dello Stato. Mario Draghi, Giuliano Amato, Pierferdinando Casini e, per terminare in bellezza, uno dei nomi sempre presenti accanto a questi ultimi era “una donna”.
Leggere titoli del genere in canali di comunicazione nazionale è stata probabilmente una delle più nefaste manifestazioni di ciò che la filosofa Gayatri Spivak definisce come “inclusione differenziale”. Brevemente, il concetto è che tu puoi essere ammessa, ma affinchè ciò avvenga bisogna rimarcare il fatto che tu sia una donna, che implicitamente mi rassicura della mia magnanimità e spirito progressista . La tua competenza, i meriti ottenuti durante la tua vita, il tuo nome e cognome. Tutto ciò è secondario. L’importante è alleviare un senso di colpa (che si auto- riproduce) convincendosi, e forse a livello intellettuale questo è il punto più basso, che un appellativo rappresentante più della metà della popolazione italiana possa essere preso seriamente. In questi casi, per smascherare facilmente i meccanismi che a livello di egemonia gramsciana riproducono modelli di stampo paternalista, è sufficiente un banale esercizio mentale.
Immaginiamo ad esempio che durante quei giorni avessimo letto: “Possibili candidati alla presidenza della Repubblica: Elisabetta Belloni, Marta Cartabia, un uomo.” Cerchiamo di essere onesti con noi stessi, sarebbe mai stato possibile? Il linguaggio e la comunicazione sono aspetti della vita umana imprescindibili, veicoli fondamentali che permettono la convivenza, la cooperazione, le interazioni senza le quali ognuno di noi sarebbe smarrito. Ma non solo. Attraverso questi ultimi ogni giorno possiamo riprodurre pratiche di violenza simbolica, discriminazione, etichette che annichiliscono e degradano la dignità umana. Per quanto riguarda il dibattito concernente il genere, abbiamo purtroppo ancora molta strada da percorrere.
Un ringraziamento speciale va alla dottoressa Anna Simone. Le sue lezioni di studi di genere sono state per noi una presa di coscienza fondamentale per quanto riguarda temi, problematiche e possibili soluzioni nel rapporto tra i sessi.
A cura di Andrea Fusco e Antonio Bocchinfuso
Diari di Sociologia x La Redazione di The Journal ASP