A chi non è capitato di sentirsi chiedere soprattutto dai più anziani “A chi appartieni?”.
Beh, questa domanda viene posta per capire le origini, la famiglia di cui si fa parte in senso stretto ed è uno tra i quesiti identitari più antichi, che permea la nostra esistenza.
Un tassello fondamentale per costruire la nostra personalità e porci all’interno della collettività è il nostro nome. È ciò che ci caratterizza, la prima cosa che diciamo quando ci presentiamo, la prima informazione che forniamo per farci riconoscere: è la punta dell’iceberg e, con esso, il cognome. In Italia, fino ad oggi, il cognome preso in considerazione e generalmente riconosciuto, tanto da scattare in automatico alla nascita del bambino, è stato quello paterno. Non c’era spiraglio per la donna, nonché madre, per far valere la propria dignità e posizione sociale, anzi. Quando nel 1982 Iole Natoli si batteva per trasmettere alle sue figlie il proprio cognome e per denunciare la discriminazione nei confronti delle donne, il Tribunale civile di Palermo con una sentenza le tarpò le ali: non solo affermò che si trattasse di un principio secolare radicato nelle consuetudini e quindi universalmente accolto, ma anche che fosse il cognome ad estendersi dal padre al figlio e, di conseguenza, a prescindere dagli stessi genitori.
Successivamente, mentre la giurisprudenza italiana adottava diverse posizioni in merito, in Parlamento differenti sono state le proposte e i disegni di legge: la prima proposta sul doppio cognome fu presentata dalla deputata Laura Cima nel lontano 1989. Tentativi che non sono andati a buon fine nel breve periodo, ma che sono stati un seme piantato in un terreno fertile, perché hanno spinto e spronato a lottare con maggiore tenacia per una società più equa e meno patriarcale. Lo so, sembrerebbe anacronistico parlare di “patriarcato” oggi, con tutti i passi avanti che sono stati fatti, eppure non è cosi. Quello del patriarcato è un fenomeno secolare, di cui gli strascichi si sentono ancora: subdolamente si è insinuato, come una piaga, e permane in diversi ambiti trovando linfa vitale in luoghi comuni, pregiudizi, consuetudini. È possibile notarlo nel settore lavorativo, dove persiste un’ampia disparità salariale tra donne e uomini, in quello politico, in cui le più alte cariche sono ancora ricoperte da uomini, e nel linguaggio, in cui si usano slur e termini sessisti ecc. In questa lunga battaglia, ancora in corso, per distruggere le fondamenta di questo sistema marcio e ingiusto una pietra miliare è la pronuncia della Consulta del 2006. Affonda in essa la condanna ai retaggi patriarcali insiti nell’uso del solo cognome paterno ed evidenzia la ormai tramontata potestà maritale: nonostante ciò, la Corte costituzionale con sentenza n. 61 spegne la lampadina accesa precedentemente dall’organo, dichiarando la sua ingerenza non consentita nella questione di legittimità, che viene respinta.
Non è rimasta silente neanche l’Unione europea, come si sottende dalle conclusioni dell’avvocato generale F.G. Jacobs presentate nel maggio 2003 (22 maggio 2003, causa C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Stato Belga): la presente causa concerne il cognome dei figli nati in Belgio da una coppia di coniugi residenti, uno un cittadino spagnolo, l’altra belga. All’atto della registrazione della loro nascita in Belgio, ai figli è stato attribuito il doppio cognome portato dal padre – Garcia Avello. In seguito, i genitori chiedevano alle autorità belghe di ottenere il cambiamento del cognome dei figli in modo che il cognome non solo rispecchiasse il modello spagnolo ma comprendesse anche il primo elemento del nome del padre seguito dal cognome della madre degli stessi (domanda respinta in quanto contraria alla prassi vigente in Belgio). Per concludere, tante sono state le sollecitazioni da parte sia della Corte di Lussemburgo, quella dell’Unione europea, sia dalla Corte di Strasburgo, la corte europea dei diritti dell’uomo. Un esempio è la sentenza del 7 gennaio 2014 della CEDU (Cusan e Fazio c. Italia), la quale ha definito la preclusione al figlio del solo cognome materno una forma di discriminazione basata sul sesso che viola il principio di uguaglianza tra sessi.
Finalmente la Corte costituzionale italiana, con una sentenza che verrà depositata nelle prossime settimane, ha deciso che d’ora in poi “il figlio assumerà, di regola, il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due”. La corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori o adottivi, poiché ledono e discriminano l’identità del figlio e non osservano il principio di eguaglianza.
Il percorso per raggiungere la parità è ancora lungo, insidioso e duro, ma oggi concediamoci di esultare per questa piccola ma grande vittoria.
A cura di Fabiola Ferrara
Fonti
https://www.giurcost.org/decisioni/2006/0061s-06.htmlhttps://temi.camera.it/leg17/post/il_cognome_dei_figli.html?tema=temi/la_tutela_dei_minori