LA CRISI SOCIO-POLITICA
INTANTO, IN MYANMAR
Lunedì primo Febbraio 2021 il Tatmadaw, le forze armate birmane, attua un coup d’etat in Myanmar e rovescia il governo democratico della Lega Nazionale per la Democrazia, la quale leader, Aung San Suu Kyi, sta tuttora scontando i 33 anni di carcere a cui è stata condannata. La motivazione ufficiale dell’esercito? Rivendicare le elezioni “fraudolente” del 2020, alle quali il suddetto governo vinse con la maggioranza assoluta.

Dal golpe il paese è al collasso, un “failing state”, come definito da Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar.
Con un tasso di occupazione arrivato al 40%, tradotto in grave povertà, l’economia è in declino, seguita dal sistema sanitario e quello educativo, per cui, stando ad Unicef, 7,8 milioni di studenti non possono più avere un’istruzione.
Ma la vera emergenza alla base sta proprio nella sanguinosa guerra civile nata a seguito del colpo di stato, che vede l’esercito dell’attuale Primo Ministro Min Aung Hlaing fronteggiato dall’unione degli eserciti etnici e dalla People’s Defence Force1, costituita da più di 60.000 soldati volontari. Si tratta di una guerra totalmente impari, con mitragliatrici da un lato e armi rudimentali e artigianali, mancanza di protezioni e acqua bollente come sterilizzante per ferite dall’altro, come racconta un’infermiera delle truppe di soccorso; nonostante ciò, tuttavia, l’esito non è scontato: questa resistenza inaudita in nome della democrazia, infatti, continua ad impedire alle forze armate di consolidare il controllo sul paese. I militari stessi hanno dichiarato di controllare stabilmente solo un quarto del territorio.
Stando all’ Assistance Association for Political Prisoners, almeno 2.900 persone sono state uccise dalle truppe della giunta e più di 17.500 arrestate. Le stime del NUG contano invece più di 11mila morti. Quasi 700 mila cittadini sono stati costretti a fuggire e attualmente gli sfollati ammontano a più di un milione.
Tra ottobre 2021 e marzo 2023, solo gli attacchi aerei registrati dal NUG sono stati più di 600. Ma per comprendere davvero questa emergenza umanitaria riporterò alcune testimonianze.
LA REALTA’ DEL POPOLO
Lo scorso 11 aprile, il capraio Soe Naing racconta di essersi ritrovato in mezzo a 168 cadaveri di civili, compresa sua figlia e altri sei parenti dopo il più letale attacco del Tatmadaw. A Pa Zi Gyi si stava infatti celebrando l’apertura di un nuovo municipio istituito dagli oppositori. Il giorno prima è stata bombardata una scuola a Webula, uno degli oltre 260 attacchi a scuole registrati dalle Nazioni Unite. E poco dopo si sarebbe festeggiato il capodanno, lo Thingyan, ma gli usuali festeggiamenti sono stati sostituiti da “strade deserte” in un paese in cui non c’è “più nulla da celebrare”, come sottolinea il ventinovenne Thurein.
Da ricordare è anche la cosiddetta “strage di Natale” del 24 dicembre 2021, in cui 31 corpi sono stati carbonizzati. Nonché l’uccisione di almeno 13 persone, di cui 11 bambini, durante l’attacco del 16 settembre 2022 alla scuola di Tabayin (reso noto dall’Unicef).

Questi genocidi vengono compiuti giornalmente dall’esercito sotto l’ideale di “ripulire il paese dai terroristi”, accusati di usare i loro bambini, gli stessi che frequentano le scuole bombardate, come “scudi”.
Spesso i componenti di questi presunti terroristi, ovvero i gruppi ribelli, sono giovani ragazzi sopravvissuti ad attacchi e pronti a rischiare tutto per vendicare i loro amici e familiari e a continuare la rivoluzione “finché non avremo la democrazia”, come afferma l’infermiera Rosalin. Un esempio ne è la più giovane combattente del gruppo ribelle Mountain Eagle Defence Force, la diciassettenne Rose Lalhmanhaih, arruolatasi dopo aver assistito al rapimento della sua migliore amica con suo fratello, torturati e poi arsi insieme al loro villaggio.
Ma come inesperti sono i volontari, così inadeguati i mezzi a loro disposizione.
Sunglingthanhg, il più anziano combattente del suo gruppo con i suoi 63 anni, testimonia come fucili, armi ed esplosivi siano tutti fabbricati dai ribelli stessi nascosti nella giungla, con materiali improvvisati quali gelatina esplosiva. Ma grazie ad una straordinaria determinazione e collaborazione, che include ospedali e scuole sotterranei nascosti alla giunta e boicottaggi segreti generali, il popolo non demorde, e soprattutto non perde terreno.
L’EMERGENZA CLIMATICA
La guerra civile, tuttavia, non è l’unica emergenza ad affliggere il paese.
Il Myanmar è stato infatti classificato dall’Indice Globale sul Rischio Climatico 2021, al secondo posto tra i Paesi più colpiti da eventi climatici estremi e calamità naturali. Tra questi, inondazioni violente, lunghi periodi di siccità, bassissimi livelli di precipitazioni. E cicloni, come il Nargis, che nel 2008 uccise 140mila persone e danneggiò le proprietà di circa due milioni di abitanti, e dalle cui conseguenze la popolazione è tuttora terribilmente afflitta. Con l’aumento delle temperature anche i cicloni sono più intensi e frequenti, ormai con cadenza annuale dal 2000. La sicurezza alimentare, strettamente connessa alla produzione agricola, è la prima ad essere minata dal cambiamento climatico.
Nella Dry Zone, la regione centrale più affetta da questa emergenza, opera L’ONG Cesvi, che continua a sostenere la popolazione ma soprattutto ad istruire gli agricoltori ad un’agricoltura più sostenibile, per rimediare il problema degli enormi sprechi e inefficienze dovute all’incompetenza locale.
Poi vi è la questione della deforestazione, che ha raggiunto il terzo tasso più alto al mondo (dopo Brasile e Indonesia), secondo i dati registrati nel periodo 2010-2015 dal Global Forest Resource Assessment (FRA, 2016) della FAO. Con una perdita netta di foreste all’anno pari a 546 mila ettari, l’equivalente in termini di CO2 emessa in quei 5 anni ammonta a 335 milioni di tonnellate, quasi comparabile all’emissione annua dell’Italia. Non stupisce dunque che le regioni più esposte a fenomeni climatici estremi siano le stesse che hanno subito una maggiore deforestazione, come sottolinea Franz Arnold (Forestry Officer locale della FAO).

RISPOSTA E SCHIERAMENTO INTERNAZIONALE
Nei riguardi della situazione birmana la risposta del resto del mondo è dipartita.
Da un lato Cina e Russia rappresentano i principali sostenitori della giunta; Tom Andrews sottolinea che “le stesse armi che uccidono gli ucraini stanno uccidendo il popolo di Myanmar”. La Cina poi continuerà a sostenere il regime perché i suoi interessi per una nuova rotta commerciale alternativa allo Stretto di Malacca sono troppo cruciali. Stupisce infatti che ambedue per la prima volta non abbiano imposto il veto alla risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel dicembre 2022; la presente chiede la liberazione di tutti i prigionieri politici e la fine delle violenze.
Dall’Occidente (ma non solo) numerose sono state le sanzioni dirette all’esercito birmano, anche se spesso poco efficaci, tanto che il titolo del servizio della CNN ha condannato un mondo che “distoglie lo sguardo dalla caduta nell’orrore del Myanmar”.
In particolare, Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Canada si sono trovati concordi nel condannare le politiche della giunta, soprattutto a seguito dell’abolizione di 40 partiti politici e dell’arresto di numerosi oppositori, compresa la leader Suu Kyi. Si biasima “l’assalto ai diritti e libertà dei cittadini” (dall’Inghilterra) la “crescente repressione e violenza” su di essi (dall’Australia). Si cerca poi di bloccare il rifornimento di carburante per l’aviazione sanzionando colossi nazionali come il Myanmar Oil and Gas Enterprise e gli stessi leader militari.
Il paradosso, svelato dal rapporto del Consiglio consultivo speciale per il Myanmar (SAC-M), è che allo stesso tempo numerose compagnie di questi stessi paesi (e di molti altri) continuano a fornire materie prime alla principale azienda statale di produzione di armamenti, la Direzione delle Industrie della Difesa.

Il teak birmano poi, principale causa di deforestazione e fonte di reddito vitale per il regime militare, rimane molto apprezzato internazionalmente. E’ stato rivelato dalla Deforestation Inc, ad esempio, un affare del 2021 (post golpe) da 100.000 dollari tra l’impresa di legname americana J. Gibson McIlvain Co. e la Win Enterprise Ltd, filiale con strettissimi legami con la giunta. Ma l’Italia non è migliore: anche dopo le restrizioni imposte dall’UE, un’impresa italiana ha continuato a fornire tonnellate di teak dalle certificazioni ritenute inaffidabili. Infine la Turchia solo a gennaio 2023 ha importato teak birmano per un valore superiore a 3,2 milioni di euro. Questo a testimoniare che le decisioni ufficiali dei paesi non sempre combaciano con le azioni concrete, e tra parole di condanna e denaro si sa chi prevale.
Se c’è un paese, invece, che davvero sostiene il popolo del Myanmar è l’India, che tuttora accoglie circa 40 mila rifugiati (secondo un parlamentare locale), nonostante il confine sia ufficialmente chiuso. Questo spirito di solidarietà deriva dal fatto che la popolazione indiana Mizo condivide la stessa tradizione etnica dei Chin del Myanmar; “Sono nostri fratelli e sorelle ed è per questo che diamo loro cibo e riparo”, ha dichiarato Zoramthanga, ministro capo del Mizoram.
In conclusione, i vertici militari hanno annunciato nuove elezioni per il prossimo Agosto, presumibilmente per ottenere maggiore legittimazione internazionale, ma le possibilità che saranno libere e regolari sembra vana.
ll Myanmar ci insegna la forza di un popolo che lotta per la democrazia e per la sua terra, anche per causa nostra; da questa storia c’è molto da cogliere.
A cura di Carolina Agostini