Eccoci con un altro appuntamento The Journal x Indomita Donna. Torniamo con il secondo appuntamento, in collaborazione con Indomita Donna e YoungEthos, dedicato ai testi degli studenti del laboratorio di scrittura accademica della Professoressa Salvini. Quest’anno gli studenti del laboratorio hanno redatto, per uno dei moduli del corso, dei testi persuasivi il cui obiettivo era mettere in discussione gli stereotipi di genere che purtroppo sopravvivono nella nostra quotidianità.
Oggi in particolare presentiamo due testi: uno sulla mascolinità tossica (quel costrutto sociale che vuole gli uomini come sempre virili, forti, mai fragili o indecisi) e uno sull’altra faccia della medaglia, ovvero la prospettiva di una ragazza sulla visione che descrive le donne come dei semplici oggetti che devono rimanere a disposizione dell’uomo.
Il piacere di piangere
Insicurezza, incertezza, debolezza.
La manifestazione di questi stati d’animo, secondo norme socioculturali che resistono al tempo, è inappropriata per il genere maschile; men che meno gli uomini possono esprimere questi tratti fragili con un atto forte come il pianto.
I maschi non devono piangere. Ogni bambino, almeno una volta nella sua vita, si è sentito dire questa frase. Accostare il pianto al genere maschile è qualcosa, per la concezione popolare, di antitetico.
Il pianto non è un’azione adatta al genere maschile; piangere è disdicevole perché il pianto è l’azione umana che più di tutte incarna insicurezza, incertezza e debolezza.
Un uomo non può permettersi di essere vulnerabile, non in pubblico almeno, poiché secondo il più classico degli stereotipi l’uomo è la figura all’interno di un gruppo (come la famiglia) che ricopre il ruolo di leader. È il punto di riferimento designato dalla società. Non è perciò opportuno farsi cogliere dalla debolezza o esternare i propri dubbi, nemmeno con un gesto naturale e umano come il pianto soprattutto davanti agli altri membri del suo gruppo.
Un uomo non deve essere fragile.
Un uomo non deve essere indeciso.
Un uomo non deve essere spaventato.
Questo è ciò che ci si attende da un maschio perché sia considerato tale. La concezione del ruolo sociale della figura maschile ruota attorno al rapporto tra debolezza e forza. La prima va osteggiata la seconda va incoraggiata.
Tuttavia, la fragilità fa parte della vita di tutti e reprimere una naturale componente umana non è una scelta appropriata. Gli studi di psicologia da questo punto di vista dimostrano come l’azione del pianto non sia qualcosa da reprimere, ma al contrario è un’azione che dimostra maturità e sicurezza personale.
Il pianto, perciò, andrebbe inteso come un momento catartico, un importante valvola di sfogo per ogni individuo. La difficoltà nell’esternare le proprie fragilità è figlia di un retaggio molto antico che ha sedimentato una concezione stereotipata del genere maschile; una concezione che vede l’uomo non come un semplice individuo, ma come un eroe omerico; il quale non può che corrispondere al binomio kalòs kagathos, il massimo ideale di perfezione fisica e morale, oppure come il superuomo di Nietzsche. Appare evidente come questa rappresentazione caricaturale della mascolinità sia inadatta e arcaica, sarebbe meglio ripensare certe regole sociali per relazionarsi con se stessi e la propria emotività in maniera libera e più umana.
È il momento di avere meno eroi e più uomini.
A cura di Francesco Guiso
Al di là del muro di genere
Una donna, un oggetto.
Una donna e un oggetto non sono sinonimi.
Quante volte abbiamo percepito questo tipo di accostamento patriarcale?
Come se la donna fosse un oggetto, un oggetto da possedere e, in quanto oggetto, senza valore.
Per le strade, in TV, sui social, nelle aziende c’è sempre qualcuno che pensa di essere legittimato a far sentire la donna un oggetto. E così, ogni giorno, la donna viene sminuita e svalutata, per il semplice fatto di essere donna e, perché tale, è considerata incapace di compiere determinate azioni che “non le si addicono”.
Insisto perché la concezione paternalistica non è limitata a un giorno o a un periodo ma è presenza costante. Insito perché non esiste il cosiddetto “sesso debole”. Insisto perché mai più una donna dovrà sentirsi inferiore a un uomo. E insisto soprattutto perché la donna non è e non sarà mai un oggetto senza valore.
Viviamo in mondo plasmato per gli uomini ed è così estenuante esistere in un mondo che non è progettato per noi, per noi donne; in un mondo che non ci prende sul serio, dove veniamo trattate come accessori.
Gli uomini vivono in un mondo creato per loro, vivono in un mondo in cui possono far valere i propri diritti, in cui al vertice di ogni società viene riservato un posto solo per loro, perché il mondo è un sistema patriarcale. Come possiamo noi donne scalare la vetta di un sistema truccato? Di una concorrenza fasulla? La risposta è semplice, non possiamo.
E così le donne si adattano e cercano di sopravvivere in un mondo di squali maschi.
E così, la disparità fra uomo e donna intrappola le nostre vite.
E così che la prevaricazione dell’uomo si accanisce sulla donna e la fa sentire inferiore, debole, impotente.
E così la donna si ritrova costretta a scegliere: parlare o restare in silenzio, dinnanzi all’uomo che la osserva e, con aria di superiorità, la scruta, come se fosse una sua preda che sta cacciando e su cui vuole posare le mani.
È a quel punto che l’uomo si sente giustificato a conquistarla in tutti i modi, a impadronirsi del suo corpo, magari anche abusando di lei, a pretendere il suo “bottino” con un atto di violenza, forse il più vile dei reati: lo stupro.
Tutti i giorni le donne devono combattere una battaglia invisibile, una battaglia quotidiana contro luoghi comuni e preconcetti immaginari che limitano le loro opportunità e potenzialità.
Contro questi muri le donne devono lottare, per fare passi in avanti in ogni ambito della loro vita.
Tutti, donne e uomini, siamo chiamati ad abbattere il muro di genere.
A cura di Aurora Consoli