“Mi sono sentita sola, come donna ed Europea.” Questa la lapidaria dichiarazione che la presidente della Commissione UE Ursula Von Der Leyen ha rilasciato di fronte all’Europarlamento a seguito del “Sofa-gate”.
Lo scorso 6 aprile, i massimi funzionari dell’UE si sono recati in visita ad Ankara per incontrare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e verificare la sua disponibilità a migliorare le relazioni con la Comunità Europea. La visita è stata organizzata anche a seguito della crescente preoccupazione per le restrizioni delle libertà civili e dei diritti umani progressivamente avvenute nel paese, e per la controversia energetica nel Mediterraneo orientale. La Turchia, formalmente candidata dal 2005 per l’accesso all’Unione Europea, continua a non vedere ratificata tale richiesta e nel 2018 sotto il presidente Erdogan i negoziati sono stati congelati in seguito a quello che l’Unione Europea ha ritenuto un regresso del paese in materia di democrazia e diritti fondamentali.
In un incontro dunque cruciale, è avvenuto un incidente diplomatico che ha avuto una rapida rilevanza internazionale: all’arrivo nella sala della riunione la Von Der Leyen ha trovato Erdogan e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel seduti e già in colloquio, mentre lei, donna, è stata costretta a rimanere per qualche minuto in piedi e poi ad accomodarsi su un divano a distanza dai due interlocutori uomini.

Il gesto è stato una “svista involontaria”, un deplorabile equivoco? Difficile crederlo, dato che l’evento va ad inquadrarsi in una serie di comportamenti che inducono ad etichettare la politica di Erdogan come “machista”.
Il fatto che il presidente turco abbia voluto trasmettere un messaggio di superiorità dei due uomini presenti all’incontro, comodamente seduti in poltrona, rispetto all’unica donna, sembra quasi un tentativo di screditare la stessa posizione attuale delle donne in alte cariche politiche; questo atteggiamento certamente si riconduce ad altri provvedimenti, volti a preservare un tipo di cultura patriarcale e maschilista, con i quali Erdogan negli ultimi anni si è ingraziato l’elettorato conservatore turco. Lo scorso 20 marzo ad esempio, il presidente ha annunciato il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere e la violenza domestica. Secondo le autorità turche infatti le leggi nazionali sono già sufficienti a garantire la protezione delle donne, nonostante nel paese si siano registrati oltre 300 femminicidi nel 2020 e 78 dall’inizio del 2021. Migliaia di persone sono scese in piazza nelle grandi metropoli come Istanbul, Ankara e Smirne, per protestare contro un provvedimento retrogrado e patriarcale, che tuttavia riscuote i consensi della parte più chiusa ed integralista della società. Attualmente infatti la Turchia è un paese caratterizzato da forti contraddizioni tra una componente laica e progressista, maggiormente concentrata nei centri urbani, in cui il processo di emancipazione delle donne è avanzato e sono stati adottati stili di vita all’europea, e una componente rurale saldamente radicata alle regole di una società patriarcale, maschilista ed integralista. Su questa frattura del tessuto sociale interviene la politica dittatoriale che si appropria dei valori della parte meno acculturata ed aperta della società, per imporli all’altra senza mediazioni.
Se l’assenza di un posto a sedere per la Von Der Leyen trova quindi una spiegazione plausibile nell’ottica maschilista dell’odierna politica turca, suscita perplessità maggiori l’atteggiamento del presidente del consiglio europeo Charles Michel, che all’arrivo della Von der Leyen ha solo accennato a lasciare la sua postazione, per poi rimanere placidamente seduto. Convocato dai capigruppo della Commissione Europea, egli si è dichiarato molto rammaricato, e scusandosi ripetutamente ha affermato: “è stato un attimo, non ho saputo prendere la decisione giusta”. Eppure resta il sospetto che il presidente sapesse già in anticipo dell’assegnazione dei posti, e che dunque abbia deciso deliberatamente di non lasciare il posto alla collega ed evitarle così l’umiliazione di fronte ad Erdogan.
Questo ulteriore aspetto della vicenda apre scenari di riflessione ben più ampi rispetto a quelli del contesto turco. Nello stesso Europarlamento la parità di genere resta ancora un miraggio: il più importante organo della democrazia europea, pur avendo intrapreso un cammino significativo verso una maggiore eguaglianza tra uomo e donna, vede ancora la percentuale della componente femminile ferma al 36,4%. Nonostante questo tasso esprima la netta minoranza della rappresentanza femminile, se paragonato con i dati nazionali appare molto alto: si colloca infatti ben 12,8 punti sopra la media mondiale dei parlamenti nazionali, che si attesta a 23,6%, e circa 8 punti al di sopra della media europea, pari al 28%. Su 193 paesi delle nazioni unite solo 10 hanno una donna come capo di governo, mentre sono 55 su 279 le donne a capo di una camera parlamentare.

Dai dati si evince chiaramente che la presenza femminile nelle istituzioni politiche è ancora nettamente minoritaria, sebbene in diversi paesi del mondo siano stati adottati provvedimenti volti a favorire la parità di genere; ciò dimostra che il problema alla base di questa partecipazione non è di natura politica, ma bensì sociale. Nonostante gli stati europei si impegnino a garantire l’uguaglianza formale dei sessi, l’uguaglianza sostanziale è ancora lontana a causa di un maschilismo latente che ancora pervade la società del III millennio. È infatti ancora radicato, a volte in modo inconsapevole, il pregiudizio in virtù del quale l’uomo può conciliare l’attività politica, lavorativa o imprenditoriale con le responsabilità familiari, e nel caso in cui sia costretto a trascurare queste ultime non viene colpevolizzato. Al contrario la donna è socialmente radicata al contesto familiare, e diventa oggetto di uno stigma negativo qualora mostri una maggiore propensione per la carriera professionale. Dunque, per qualsiasi incarico pubblico o lavorativo, la società è portata a scegliere, seppur inconsciamente, l’uomo rispetto alla donna, ed a ritenere che sia più ‘naturale’ che tali incarichi siano ricoperti da uomini, secondo un pregiudizio che in sociologia viene chiamato andro-normatività.
Come tentare di risolvere questo problema?
È indiscusso il ruolo dell’educazione nello sviluppo di una nuova consapevolezza culturale soprattutto nelle giovani generazioni, ma è possibile intervenire, per accelerare tale processo, anche a livello politico. Per cercare di raggiungere l’uguaglianza sostanziale tra i generi, nell’ultimo decennio sono state introdotte in politica le cosiddette “quote rosa”, adottate per la prima volta in Francia. In Italia, in seguito alla riforma costituzionale del 2003 volta a promuovere le pari opportunità di uomini e donne alle cariche elettive, nel 2017 viene promulgata la legge Rosato, che con il “Rosatellum” istituisce le quote di lista, in base alle quali le presenze femminili non possono scendere sotto il 40%. L’introduzione delle quote rosa è tuttavia controversa ed ha sollevato vari interrogativi anche di natura giuridica, dato che costituzionalisti come Gustavo Zagrebelski, presidente emerito della Corte Costituzionale, ritengono che il “Rosatellum” sia incostituzionale, in quanto va a limitare l’assoluta libertà di voto sancita dalla Costituzione. Inoltre, se nella fase di presentazione delle liste le quote appaiano rispettate, tale vincolo viene spesso raggirato poiché si tende a candidare le donne in collegi di piccole dimensioni o dove si prevedono meno chances di successo.
L’esperienza e la storia politica del passato ci insegnano che la garanzia di un’uguaglianza formale tra i cittadini non basta per la realizzazione di un’uguaglianza sostanziale, dunque è necessario che le agenzie educative e le istituzioni politiche odierne si impegnino attivamente per eliminare la disparità di genere latente nella nostra società.
A cura di Adriano Belfiore