La scienza non è mai stata vettore disinteressato in geopolitica. Non è azzardato identificarla fonte di legittimazione universale, sia all’interno delle nazioni, sia tra le stesse. La ragione è semplice: nella società contemporanea la ricerca scientifica sottende sempre più l’avanzamento tecnologico, nient’altro che preludio dell’espansione militare e delle politiche di potenza per ragioni di mera superiorità strategica.
Le origini della supremazia americana

Nel 1961, sulla rivista “Science”, Alvin. M. Weinberg interpretava la complessità scientifica in qualità d’opera monumentale, commensurabile alla Sfinge di Giza, alle cattedrali d’età moderna, alla Versailles di Luigi XIV. Grandiose fatiche commissionate da faraoni, papi e re, in nome del prestigio proprio, del consenso interno e del dominio sulle città vicine. Oggi, è la verità scientifica a diventare prerogativa dei governi delle potenze mondiali, per ragioni intrinseche non così dissimili a quelle che duemila anni or sono ergevano templi e chiese in nome della verità religiosa. Ancor prima di Weinberg, l’aveva intuito Vannevar Bush. Nel rapporto governativo commissionatogli da Roosvelt, rievocando il mito della frontiera, la scienza diventava endless frontier, nel generale fervore del Progetto Manhattan che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche durante la seconda guerra mondiale. Di lì a poco, gli Stati Uniti si sarebbero valsi dell’appellativo di potenza tecnocratica. Sfruttando il vantaggio di non aver combattuto la guerra in casa e dovendo smaltire la sovrapproduzione interna, gli americani istituzionalizzavano il cambiamento tecnologico. Detto altrimenti: i progetti scientifici di larga scala, imbevuti di fondi pubblici di cui solo gli Stati Uniti potevano farsi carico in quel momento, diventavano ruota motrice del prestigio dell’ancora oggi Numero uno americano.
Gli americani non furono però i soli a intendere la scienza quale fonte di legittimazione politica, all’interno della propria sfera d’influenza. Nel confronto bipolare degli anni Cinquanta e Sessanta, anche l’Unione Sovietica ne coglieva la funzionalità per dare adito alla propria politica di potenza internazionale. Sebbene spettacolare sul piano esterno, l’impatto dello Sputnik, primo satellite ad esser inviato nello spazio, fu quasi insignificante sullo sviluppo economico interno.
Ne consegue che a ridefinire la gerarchia delle potenze all’indomani del secondo conflitto mondiale, non fu solo la confluenza dell’ideologia e della tecnica, ma anche la capacità organizzativa. Per intenderci, LTV e Litton, da embrioni impegnati nell’elettronica a conglomerati diversificati nel settore aerospaziale, poterono godere di tale ampliamento solo grazie al canale privilegiato con la domanda pubblica. Senza mezzi termini: era l’interesse statale a coltivare l’impresa privata nei settori tecnologicamente avanzati. Il Pentagono diventava acquirente unico – attraverso monopsonio – tratteggiando la linea d’indirizzo di ricerca e sviluppo e produzione. Il Congresso, dal canto suo, deliberava l’ammontare e i destinatari delle commesse pubbliche. Va da sé che, per favorire la concorrenza interna e le aggregazioni d’impresa, i contratti non fossero molti.
Lungi dal confinare la strategia americana alla sola impresa privata tipica del capitalismo manageriale a stelle e strisce, fu nel confronto tra le due sponde atlantiche che le scelte strategiche statunitensi si confermarono decisive all’inveramento del “secolo americano”. Approfittando del tramonto eurocentrico e del gap tecnologico con il Vecchio continente – che peraltro lo rendevano sempre più dipendente prima nella dimensione tecnologica, e poi in quella energetica – Eisenhower avviava il “piano Marshall della scienza”. Dettando lo standard tecnologico nell’industria aerospaziale e nella ricerca nucleare, gli Stati Uniti modellavano la conseguente scala gerarchica nello scacchiere internazionale. Su tutti, funzionale a questa linea strategica, si sarebbe rivelato sei anni più tardi il Cern. Incastonato tra Svizzera e Francia, manifestazione della convergenza d’intenti americano-europei nella ricerca della fissione nucleare, è tutt’oggi il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Infine, per ovviare all’apertura nei confronti della tecnologia sovietica, Washington iniziò a siglare accordi bilaterali con i Paesi dell’Europa Occidentale, consentendo l’accesso alle proprie imprese in mercati non concorrenziali.
Nuove sfide, nuove risposte

Oggi, a colmare il divario tecnologico con gli americani non sono più solo russi ed europei. I nuovi arrivati, Cina su tutti, rivendicando posizioni di potenza, annullano la logica della mutua distruzione assicurata dal contesto bipolare. Viene quindi meno la parità offensiva, e quindi difensiva, delle due superpotenze. Vale a dire che se nel secolo scorso la deterrenza poggiava sulla capacità di rappresaglia, nella nuova corsa spaziale si rimette alla capacità preventiva. Un esempio sono gli attuali proiettili ipersonici russi e cinesi che, sfuggendo ai sistemi asat nella troposfera, diminuiscono la distanza con la maturità tecnologica del leader americano e ne intaccano la sensazione di sicurezza.
In risposta, gli Stati Uniti fanno quello che da sempre sanno fare meglio: rincarare la dose. In altre parole, spostano la frontiera, verso l’alto. E per farlo si avvalgono di quello che per certi versi rappresenta l’aspetto più esclusivo della rinnovata corsa americana allo spazio: la Space Economy. Beninteso, il ruolo dei privati nel settore aerospaziale americano non rappresenta di certo una novità. Storicamente il bilancio della Nasa era detenuto per il 90% circa da appaltatori privati. Tuttavia, oggi sono proprio i privati a sostenere per intero i costi e i rischi industrial-finanziari della ricerca scientifica. Non è un caso che il bilancio dell’agenzia tanto voluta da Eisenhower sia pressoché dimezzato rispetto al 1975. Le commesse sono minime. Basti pensare a quanto accaduto l’aprile scorso con la contestazione di Blue Origin (Jeff Bezos) per l’assegnazione alla rivale SpaceX (Elon Musk) del contratto da 2,9 miliardi di dollari per il ritorno dell’uomo sulla Luna.
A conferma di coloro che temono la progressiva deriva dei privati dalle crude logiche imperiali americane, il Congresso arranca a imporne la direttiva. Non sono un caso l’istituzione della Space Force (2019) e la riattivazione dello Space Command (2017). La prima fa politica, facendo accordi civili e militari, e promette l’estensione del proprio raggio d’azione allo spazio cislunare, oltre alla capacità di osservazione al fine di identificare possibili minacce, il secondo, invece, conduce operazioni militari al di sopra della linea di Kármán (100 km sopra il livello del mare).
Il memorandum del 2020 ed Elon Musk parrebbero quindi in perfetta sintonia con il disegno geopolitico statunitense: spostare, da un lato, la linea difensiva nell’esosfera, sfiancando la rincorsa sino-russa che già ha pressoché annullato il gap tecnologico sino ai 15 km di altitudine; dall’altro, implementare la collaborazione tecnologica con i propri clientes, ufficializzandone la dipendenza economica e geostrategica e isolandoli al contempo dai rivali. Disegno perfetto, se non fosse che senza una direttiva governativa e la progressiva saturazione di detriti nelle orbite più basse, gli Stati Uniti rischiano di restare a terra. E tanti saluti all’uomo sulla Luna.
A cura di Alice Tommasi
Fonti
- G. Friedman, 2021, “Lo Spazio serve e preparare le guerre di domani” in Limes. Rivista italiana di geopolitica, Vol.12
- M. Landoni, 2017, L’Agenzia Spaziale Italiana. Tra stato innovatore e dimensione europea, ilMulino
- F. Petroni, 2021, “Look up: L’America innalza il suo Limes Cosmico” in Limes. Rivista italiana di geopolitica, Vol.12
- F. Pigliacelli, L. Sebesta, 2008, La Terra vista dall’alto. Breve storia della militarizzazione dello spazio, Carocci