Dopo la ritirata statunitense dal territorio afgano, la presa di potere da parte dei talebani, e l’ormai assodata amicizia sino-pakistana, come si muoverà il Dragone vista la crescente instabilità in Afghanistan?
Se la Cina riuscisse a stabilire relazioni diplomatiche con il nuovo regime afgano allargherebbe la propria zona di influenza su buona parte del Medio Oriente, lasciando agli USA solo l’India come appoggio e supporto rilevante nella regione; difatti, Pechino si è sempre dichiarata disposta a lavorare con qualsiasi tipo di governo a patto che i suoi interessi non vengano intaccati.
Le mire espansionistiche verso il Medio Oriente
Cominciamo dal prendere in esame il contesto: il Pakistan è uno dei partner più importanti della Cina in Asia, non a caso quest’anno si festeggiano i 70 anni di relazioni diplomatiche tra i due paesi. I motivi sono diversi, il primo è la partecipazione strategica di Islamabad, capitale pakistana, alla “Belt and Road Initiative” (BRI). Gli enormi progetti di infrastrutture economiche promossi da Xi Jinping nel 2013 includono il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), che è il fulcro fondamentale dell’iniziativa “One Belt One Road”. La Cina prevede di stanziare circa 62 miliardi di dollari per attuare pienamente l’iniziativa. Dopotutto, l’obiettivo del CPEC è fondamentale: migliorare gli scambi commerciali in Asia (e non solo), e sviluppare collegamenti infrastrutturali nelle regioni geopoliticamente rilevanti. Ci sono 70 progetti, inclusi oleodotti, cavi ottici, ferrovie e reti stradali; attualmente ne sono stati realizzati circa 50, per un valore di circa 26 miliardi di dollari, tra cui una rete autostradale lunga 3000km che collega Pakistan, Arabia Saudita e Cina in sole 36 ore rispetto alle più di 250 impiegate prima. Una volta che il progetto sarà finito, la Cina stabilirà collegamenti diretti tra Kashgar nello Xinjiang e il porto di Gwadar in Pakistan.
Ricordiamo che la “China Overseas Port Holdings Corporation”, una compagnia petrolifera statale, è stata coinvolta nelle attività del porto di Gwadar negli ultimi cinque anni. Non solo: il porto di Gwadar simboleggia l’intersezione delle rotte terrestri e marittime della BRI, rappresentando una nuova possibile base navale militare estera dell’esercito levantino dopo quella già esistente in Gibuti, sul Corno d’Africa. Da parte sua, il Pakistan, vede questa iniziativa come una chance per espandere i propri interessi geo-economici, facilitando il collegamento, attraverso il porto di Gwadar, dell’Asia centrale con il Mar Arabico. Queste previsioni poggiano però sulla speranza che i talebani riescano a stabilizzare l’Afghanistan e non permettano attacchi terroristici verso il Pakistan, Cina ed Asia centrale. Tuttavia, il ritiro degli Stati Uniti ha fomentato i terroristi di tutta l’area poiché essi lo hanno considerato come una grande vittoria.
È vero che il Pakistan è altamente strategico per la Cina, ma è anche vero che Islamabad ha sempre dato l’impressione di seguire una certa politica di liquidità. Nonostante l’evidente asse sino-pakistano, in chiave anti-India (l’India è l’avversario della Cina e il nemico mortale del Pakistan) e in campo economico, politico e militare, il governo pakistano è stato più volte in contatto con gli Stati Uniti negli anni. Washington, infatti, ha ripetutamente avviato contatti con Islamabad per placare la piaga del terrorismo islamico, attraverso la distribuzione di aiuti specifici, tuttavia ricevendo risposte deludenti.
Insomma, a causa della situazione socioeconomica interna molto frammentata e del delicato contesto geopolitico, il Pakistan non ha mai brillato per la sua affidabilità. Oltre all’instabilità in Afghanistan, il primo ministro pakistano Imran Khan deve fare i conti anche con enormi tensioni nazionali (incluso il Belucistan). Nonostante ciò, negli ultimi mesi Islamabad ha ripreso gli scambi con i Paesi vicini, tra cui lo stesso Afghanistan. La notizia è piaciuta molto alla Cina, che ha quindi proposto di estendere il corridoio economico Cina-Pakistan anche all’Afghanistan.
I pilastri della strategia cinese
Per comprendere gli interessi di Pechino in Afghanistan è necessario focalizzarsi su 3 punti.
Il nesso tra stabilità politica e sviluppo economico con un occhio allo Xinjiang: l’idea di fondo è quella che lo sviluppo economico porti alla stabilità politica, e tale stabilità permetterebbe alla Cina di prevenire che forze estremiste possano avere delle basi in Pakistan e Afghanistan da cui poter attaccare lo Xinjiang. Protezione ed estensione dei propri investimenti in Pakistan: la promessa da parte del Dragone consiste nell’estensione degli investimenti a sostegno del nuovo regime talebano a patto che quest’ultimo non dia rifugio ai militanti uiguri, evitando così lo spillover in Xinjiang e Pakistan. Interessamento pragmatico nella regione: l’accordo stipulato tra il governo cinese e quello tagiko sulla costruzione di una base militare “segreta” vicino Shaymak, a Nord del confine con l’Afghanistan, mostra indubbiamente come la Cina si stia occupando della situazione in modo più pragmatico, talvolta venendo sempre meno al rispetto del principio di non interferenza da decenni professato. In altre parole, nonostante i contatti col regime talebano da una parte, dall’altra Pechino vuole tutelarsi da eventuali infiltrazioni terroristiche, che potrebbero intaccare la sicurezza nazionale.
Il rapido interessamento potrebbe essere indice di che cosa Pechino voglia ottenere dalla superiorità globale che la Cina intende raggiungere nel 2049, centenario della creazione della Repubblica Popolare.
USA: incompetenza o strategia?
Analizzando la caotica, ma non inattesa, ritirata delle truppe statunitensi dal territorio afgano si può notare che lo scompiglio creato nel panorama internazionale e la tattica di voler “perdere” quel territorio potrebbero avere una loro ratio.
È già da tempo ormai che gli USA progettavano un ritiro delle proprie truppe da un territorio non più vantaggioso né da un punto di vista economico né di risorse estraibili, come lo era maggiormente invece un ventennio prima, visti i costi estremamente elevati da impiegare nell’estrazione e nell’esportazione.
Di ricchezze rimaste, seppur strategiche più che economiche, ci sono proprio i talebani che risultano essere una minaccia molto più concreta per la Cina. Gli USA hanno provato per anni a portare stabilità e valori occidentali in un territorio storicamente difficile, dove persino i più grandi imperi sono crollati, spendendo più di cento miliardi di dollari. Lasciare la patata bollente in mano a Cina, Iran e Russia, portandoli ad investire in quel buco nero, potrebbe rivelarsi una strategia estremamente efficace per Washington, che mirerebbe ad una sostanziale modifica degli equilibri nel panorama internazionale in cui Cina e USA sono estremamente coinvolte.
Ora Pechino dovrà impiegare tempo e risorse per far sì che Kabul diventi un nuovo alleato per realizzare l’ambizioso progetto della Nuova Via della Seta. La Repubblica Popolare Cinese ha già dalla sua parte il Pakistan e la Repubblica Islamica dell’Iran, e qualora stipulasse anche un’alleanza con il vicino Afghanistan, riuscirebbe a creare un blocco compatto ad est della Mesopotamia. Un fronte che può competere ulteriormente sul piano geopolitico ed economico da un lato con Stati Uniti ed Europa, e dall’altro con Russia e India. È per questo che la questione in Afghanistan è diventata così rilevante: se i cinesi riusciranno a compiere l’impresa di tenere a bada i talebani, potranno aggiungere una parte importante al nuovo impero globale che stanno costruendo. D’altra parte, se l’Afghanistan, come l’Unione Sovietica negli anni ’70 e ’80, si trasforma in una trappola per Pechino, il nuovo progetto della Via della Seta potrebbe essere gravemente danneggiato. Infatti, se i talebani riusciranno a diventare attori non controllati da Pechino, non solo destabilizzeranno l’Afghanistan, ma, come accennato in precedenza, potrebbero innescare una ribellione interna nei territori di già fedeli alleati filocinesi, come Iran e Pakistan. Inoltre, la Cina, come analizzato precedentemente, si trova già a dover gestire una delle aree interne più problematiche, ovvero la regione dello Xinjiang, a maggioranza musulmana, al confine con l’Afghanistan. Per il Dragone i talebani rischiano di divenire un supporto alle proteste della minoranza musulmana uigura, ostile al governo centrale cinese, e spesso perseguitata.
Infine, si può sottolineare che il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, ha come obiettivo quello di istigare l’Islam politico radicale attraverso i talebani al fine di destabilizzare la Cina e i suoi alleati. D’altra parte, la possibilità di un asse di ferro tra Cina-Pakistan-Iran e Afghanistan potrebbe provocare reazioni da parte di Russia e India, che si potrebbero orientare verso alleanze con Washington e Bruxelles per impedire l’ulteriore ascesa di Pechino. Washington ha ridotto così lo spreco di risorse dovuto alla sua presenza fisica in aree difficili da controllare, ma ha aumentato la sua presenza nel Pacifico. I prossimi anni ci daranno l’opportunità di capire quanto successo abbia avuto questa mossa degli Stati Uniti nel lungo periodo, o quanto strategicamente sbagliata si sia rivelata.
Certo è che i veri perdenti sono, purtroppo, quei cittadini afgani che sono e saranno assoggettati ad nuovo autoritarismo islamico radicale.
A cura di Andrea Carducci