Zygmunt Bauman, al pari di autori classici come Durkheim o Weber, ha lasciato un’impronta indelebile nelle scienze sociali. Conosciuto dal grande pubblico come il teorico della “modernità liquida”, (da cui l’omonimo testo uscito per la prima volta nel 2000) egli ha contribuito profondamente al generale tentativo di osservare, comprendere e descrivere la complessità dei fenomeni sociali all’interno dell’inedita cornice globale. Come altri autori (ad esempio Ulrich Beck) ravvisò le evidenti contraddizioni che affioravano in un periodo in cui la globalizzazione sembrava la soluzione a tutti i problemi, parallelamente alla convinzione che il mercato fosse, utilizzando la terminologia di Michel Foucault, il “regime di verità” più adatto alla fondazione di una società più libera e giusta.
Il seguente articolo cercherà di analizzare e presentare un piccolo volume tascabile, colmo di riflessioni che tutt’oggi ci costringono a riflettere su un tema delicato come l’identità.
L’ “Intervista sull’identità” , curata da Benedetto Vecchi nel 2003, fa parte di quella categoria di libri che sono destinati a penetrare nelle nostre coscienze individuali, sottoponendoci ad una dolorosa quanto benefica analisi rispetto alle nostre biografie e/o attività quotidiane.
Un concetto alquanto scivoloso, evasivo e polisenso: l’identità per certi versi si avvicina alla famosa citazione di Agostino riguardo al tempo nelle Confessioni: «Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so».
La prima osservazione dell’autore, in apertura del testo, ruota attorno alla constatazione che l’identità sia qualcosa di inventato anziché scoperto, il traguardo di uno sforzo che chiede in pegno la successiva amnesia di quest’ultimo affinché la “lotta vada a buon fine”; in altri termini, parafrasando le parole di Irvin Yalom, noi inventiamo uno scopo nella nostra vita e passiamo la maggior parte del nostro tempo a cercare di dimenticare che tale scopo sia una nostra invenzione.

In un certo senso il problema dell’identità affiora esattamente nel momento in cui tale compito è passato in mano ai singoli individui anziché ad istituzioni ed agglomerati sociali. L’esempio più comune in questo discorso è la formazione degli Stati Nazione. Come noto, il termine “nazione” si poggia su fondamenti identitari, sull’ a-prioristica definizione tra il “noi” e “loro” per sopperire alla“progressiva disarticolazione delle comunità locali, sommata alla rivoluzione dei trasporti”.
Da un’idea, quella di nazione, si arriva a plasmare una realtà all’interno della quale “chiunque tu fossi o aspirassi a diventare, erano le istituzioni dello Stato ad avere l’ultima parola.”
E’ evidente che il problema si presenti nel momento in cui l’identità perde i suoi ancoraggi sociali e gli individui cercano disperatamente un “noi” in cui entrare a far parte. Un obiettivo che, all’interno di una società in continua accelerazione e tendenza al cambiamento, necessita delle medesime caratteristiche per sostanziarsi.
“Nel mondo nuovo di opportunità fugaci e fragili sicurezze, le identità vecchio stile, non negoziabili, sono semplicemente inadatte.” La fissità, la ricerca di una stabilità statica e compiuta nel discorso identitario, è semplicemente un compito pernicioso che l’individuo non può permettersi se vuole sopravvivere al tempo della vita tardo-moderna. Il modello da tenere in conto è, come scriveva già ne “La società dell’incertezza”, quello del turista, colui che è in continuo movimento senza una stabile e certa dimora, che tende a sostituire non appena una nuova opportunità si presenta ai suoi occhi.
Generalmente, i luoghi nei quali scaturiva un sentimento di appartenenza, (e quindi di reciproco riconoscimento) capaci di rafforzare legami sociali stabili, come la sede di lavoro, la famiglia o il vicinato, si sono lentamente indeboliti: pensiamo allo smart-working, dove una nostra foto anonima sostituisce il contatto visivo, reale fondamento della pratica relazionale. Oppure chiediamoci banalmente se all’interno del nostro palazzo fossimo in grado di elencare i nomi di tutti i componenti che vi abitano e indicarne almeno due qualità.
Per sopperire a queste mancanze, tanto quanto per descriverne gli effetti, Bauman ci parla delle nuove “comunità guardaroba”, che si formano quando si appendono al guardaroba i problemi individuali, proprio come delle giacche a teatro. Partite di calcio, matrimoni, una sventura di una celebrità sono banali esempi di come queste comunità si formino tanto velocemente quanto il loro smantellamento. Nessun impegno, solo brevi momenti per ri-acquisire una sicurezza che nelle biografie individuali continua sempre più a scemare, narcotizzata dal continuo paragone con la vita di qualcun altro attraverso uno schermo digitale.

E’ questa la condizione di quotidiana contraddizione: la possibilità di scegliere continuamente chi essere per noi stessi e per gli altri porta ad una complessiva insicurezza ed erosione del binomio “essere-dover essere”. La preponderanza del dover essere ha portato al rigetto dell’ auto-riflessività, ovvero lo sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza, per concentrare le energie verso una “auto-flessibilità”, il cui diktat è una versione malsana dell’eracliteo “tutto scorre, niente si ripresenterà mai uguale”.
Bauman ripete più volte che tra le cause della crisi identitaria vi sia il fatto che le relazioni stabili e affidabili siano considerate sempre più obsolete. La conseguenza di una perversa dinamica consumistica e della flessibilità in ambito professionale (la cui ricadute sui soggetti sono state analizzate da molti, ricordiamo per esempio Sennet o Fisher) è l’applicazione delle logiche di consumo e precarietà anche ai rapporti umani. Le tradizionali relazioni stabili sono sostituite da una miriade di contatti, piccole interazioni che comportano coinvolgimento ed impegno minori rispetto al passato. Tuttavia, se l’identità è definita in modo relazionale, come molta letteratura ha definitivamente affermato, questi cambiamenti nelle dinamiche interpersonali non possono che tradursi in un atteggiamento consumistico anche nei confronti della propria identità, che dunque fatica a sedimentare e consolidarsi.
Scrive Bauman: “… noi siamo tutti nel mercato e sul mercato, simultaneamente consumatori e beni di consumo”. Le sempre più frequenti micro interazioni, che sostituiscono le prolungate conversazioni familiari, causano disabitudine e timidezza nei rapporti con “persone reali”. Pensiamo ad esempio a quante volte, per sfuggire ad una onerosa conversazione faccia a faccia (che siamo sempre più incapaci di sostenere) tiriamo fuori i nostri cellulari e ci dissociamo dalla relazione fisica per rifugiarci nella nostra sterminata rete di brevi contatti digitali, dai quali si può immediatamente uscire o scegliere di rispondere in seguito.
“Intervista sull’ identità” fu pubblicato prima dell’ avvento dei social network, tuttavia è significativo notare come questi rendano possibile la creazione di identità virtuali, costruite ad arte, che consentono di produrre immagini di noi completamente scollegate dalla vita reale. Con i social creiamo vetrine di noi stessi, che possiamo modificare in ogni istante e reinventarci viaggiatori, sportivi, lettori o “food lover” in pochi minuti, a seconda delle mode. Insomma, consumiamo identità in quantità notevoli. Interessante, osserva Bauman, è il generale desiderio di apparire globalizzati, connessi in tempo reale con il resto del mondo, per cui centinaia di milioni di persone ascoltando gli stessi artisti, guardano gli stessi film ammirando le stesse celebrità, arrivando a ad avversare gli stessi nemici (globali) e ad applaudire lo stesso salvatore (globale), pur non disponendo assolutamente dei mezzi materiali necessari per accedere agli spazi dell’ élite culturale “cosmopolita”. La maggior parte dei “consumatori globalizzati” sono consapevoli di essere interdetti dalle “feste planetarie policulturali”, e ripiegano dunque sulla costruzione di quella che l’autore definisce una extraterritorialità virtuale,sostitutiva di quella “reale”. È un po’ la stessa logica di chi sui social si sforza di ostentare l’aver visitato più posti del mondo possibile, definendosi “travel addicted” o cose simili: il disperato desiderio di costruire la propria identità virtuale in modo da sembrare il più possibile attori attivi della globalizzazione,anche da parte di coloro (la maggior parte della popolazione) cui questa possibilità è preclusa per ragioni materiali.

In un precedente articolo avevamo tentato di attualizzare il pensiero di Erich Fromm ne “L’arte di amare”, mostrando come la tendenza ad essere sempre più diffidenti e schivi nelle relazioni stabili e durature, intuita dal filosofo tedesco già negli anni ’50, sia oggi più che mai evidente. L’ abbandonarsi ad un amore completo significa “darsi in ostaggio del destino rendendosi dipendenti da un’ altra persona, dotata di analoga libertà di scegliere e della volontà di seguire la scelta, e perciò piena di sorprese, imprevedibile”. Questo atteggiamento di completa fiducia e dipendenza dall’ Altro, la pratica feconda del dare incondizionatamente che è tipica di un sincero sentimento d’amore, mal si concilia con il primato della libertà assoluta, di indipendenza e di autonomia dell’ individuo propugnato dal senso comune neoliberista, che non a caso lo psicologo inglese Oliver James ha definito capitalismo egoista. Il risultato è la ricorrente ansia nei rapporti, ansia tipica della precarietà del nostro sistema socio-economico. Sempre più spesso ci si chiede “cosa succede se l’altra persona si stufa prima che mi sia stufato io?”. La dinamica consumistica, ancora una volta, si applica anche alle relazioni amorose, e fiorisce una letteratura quasi manualistica su come “scaricare i partner”. Ancora una volta un capitalismo che estrae valore dai nostri sentimenti, produce sedicenti “esperti” o consulenti pronti a vendere “ricette per le relazioni umane”.
Tutta questa ansia, tutta questa sintomatologia di disagio sociale per Bauman è la dimostrazione che alla domanda “chi sono io?” si può rispondere in modo credibile solo “in riferimento ai legami che connettono l’io ad altre persone e alla presunzione di affidabilità e stabilità nel tempo di tali legami”. I principi che tanto sono esaltati dalla nostra epoca, come quelli di flessibilità o resilienza, che implicano la necessità della continua trasformazione del soggetto per adattarsi ad un contesto che muta a velocità incontrollabile, imponendo dunque una sorta di frenetico oblio quotidiano del proprio esserci precedente, comportano delle conseguenze disastrose per la costruzione della propria identità. Appare dunque necessaria, dopo la lettura di questo testo folgorante, una riflessione su quanto sia opportuno sacrificare sull’altare dell’efficienza economica e del realismo capitalista ogni forma di stabilità, familiarità e sicurezza esistenziali, e su quanto invece quella che Mark Fisher definirà come una vera e propria epidemia di malessere psichico, conseguente ai problemi qui parzialmente analizzati, dovrebbe essere un indicatore per la definizione degli obiettivi politici delle nostre società.
A cura di Andrea Fusco e Antonio Bocchinfuso