LA REALTÀ DEI FATTI: la Cina in Myanmar

La minaccia di intervento cinese è abbastanza per porre fine al conflitto in Myanmar?

Il primo febbraio 2021 è stato arrestato il capo di stato de facto del Myanmar, insieme ai membri del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia. A guidare il golpe è stato il capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, che ha assunto in seguito il ruolo di capo del governo. Per comprendere le motivazioni di questo putsch dobbiamo avere ben chiara l’intera storia della Birmania, caratterizzata da conflitti etnici continui, da un lento processo di decolonizzazione e da governi coercitivi che hanno continuamente frenato la crescita del paese.

Nel novembre del 2020 la Lega Nazionale per la Democrazia ha vinto legittimamente le elezioni, riconfermando la stabilità di Aung San Suu Kyi, ormai alla guida del paese dal 2016. Il Tatmadaw ha mantenuto il 25% dei seggi in entrambe le camere del parlamento, ma il suo partito affiliato, l’USDP, ha subito una sconfitta debilitante. Per comprendere la rilevanza dello scontro tra l’esercito e i giovani che manifestano per le strade birmane, è doveroso rifarci alla storia e alla conformazione del paese. Il Myanmar è composto da un ampio mosaico etnico; lo stato però riconosce ufficialmente solo otto degli innumerevoli gruppi etnici. Ciascun gruppo, a sua volta, si suddivide in sottosezioni indigene, fino ad arrivare ad un totale di 135 etnie birmane. Da questo punto di vista però il colpo di stato del 2021 ha rappresentato un punto di svolta per la società birmana: l’opposizione compatta ai militari ha permesso il superamento delle storiche rivalità tra la maggioranza Bamar, salda componente del LND, e i rappresentati dei gruppi etnici minoritari, per anni in combutta contro il governo. Dall’incontro tra la società civile e il Governo di Unità Nazionale è nato il People’s Defence Force, un vero e proprio esercito di resistenza, individuato dalla giunta militare come organizzazione terroristica. L’esercito in Myanmar ha sempre svolto un ruolo predominante, già nel 1948 il Tatmadaw veniva riconosciuto come unica possibile garanzia dell’unità del paese di fronte alle divergenze delle minoranze. Negli anni tra il 1962 e il 2011, si sono susseguite al governo svariate giunte militari che hanno generato un forte scontento popolare; è proprio cavalcando l’onda di questo crescente odio nei confronti del Tatmadaw, che Ausung San Suu Kyi è diventata la figura emblematica di opposizione ai militari. Dopo 3 decenni di regime dittatoriale, nel 1990 si sono tenute per la prima volta elezioni multipartitiche, vinte legittimamente dalla Lega Nazionale per la Democrazia. La giunta militare però ha respinto i risultati conseguiti dalla LND, costringendo il suo leader agli arresti domiciliari. Nel 1991 Ausung San Suu Kyi è stata insignita del Premio Nobel per la pace. La sua elezione a deputato nel 2012 ha segnato l’inizio di una fase quasi decennale di transizione democratica, bruscamente interrotta dal colpo di Stato del febbraio 2021. L’immagine della leader democratica ha subito duri colpi negli ultimi anni; è stata accusata di aver taciuto difronte al genocidio dei Rohingya, in cui il Tatmadaw ha compiuto almeno 10.000 omicidi.

All’interno del contesto internazionale, il Myanmar rappresenta una terra di interesse per molti paesi, primi fra tutti Cina e Stati Uniti d’America, senza considerare l’India e i paesi Asean. La Cina, oltre ad essere confinante con il Myanmar, è il suo principale partner commerciale. Le ambizioni di Pechino sono molteplici, prima fra tutte la Beltane Road, la nuova via della seta, e le innumerevoli riserve di gas presenti in Arakan. Il 2020 ha segnato 70 anni di relazioni diplomatiche, definite “fraterne”, tra la Cina e il Myanmar. Dal 2018 i due paesi hanno sviluppato ufficialmente il corridoio economico Cina-Myanmar, che permette ai cinesi di accedere all’Oceano Indiano senza passare per lo stretto di Malacca, presidiato dagli Stati Uniti. Inoltre, da quando è scoppiato il conflitto, sono state incendiate più fabbriche cinesi in Birmana, e il continuo crescere di questo sentimento anti-cinese potrebbe rivelarsi un’opportunità per la legislatura Biden. La Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato che si occuperà di mantenere vivo il dialogo con i gruppi armati di etnia cinese presenti del Nord del MyanMar per usarli come strumento negoziale contro il Tatmadaw.

Dunque, secondo la teoria realista, la Cina è il paese con più probabilità di risolvere il conflitto, in quanto non solo è superiore sotto ogni punto di vista, ma anche perseguirebbe tutti i suoi interessi. A seguito dell’analisi conseguita, possiamo dire che il calcolo costi- benefici della guerra in Myanmar porterebbe enormi vantaggi alla Repubblica Popolare Cinese. La Cina, con il solo utilizzo del suo potere, e quindi, della sua influenza, potrebbe porre fine al conflitto minacciando l’intervento armato, senza la necessità di portarlo a compimento. L’unico ostacolo da arginare sarebbe quello ideologico, dato il principio di non ingerenza della Cina nei conflitti esterni e soprattutto il suo difficile accostamento con le cause a favore della democrazia; ma la questione non dovrebbe sussistere visto il sostengo porto ad Ausung San Suu Kyi sul ‘dossier Rohingya’. Il Myanmar non ha la capacità né politica né finanziaria per combattere la politica di proiezione di potenza cinese. Inoltre, un’intera branca della letteratura politico-sociologica, teorizza che la scelta realista non sia altro che l’ovvia risultante della struttura interna cinese, composta da uno stato forte e una società debole.

A cura di Marta Francesconi

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