Produttività
Oramai si sa, in Italia i salari sono troppo bassi. Già prima della pandemia l’Italia era una delle due sole nazioni a non aver visto una crescita dei salari reali (salari nominali al netto dell’inflazione), anzi ne abbiamo assistito a una diminuzione del poter di acquisto. Durante la pandemia c’è stato un ulteriore crollo. Nonostante il mercato del lavoro in Europa sia tornato ai livelli di occupazione pre pandemico, e anzi abbiamo raggiunto livelli da record, la povertà, sia relativa che assoluta in Italia, ha raggiunto i suoi massimi storici.
Come se non bastasse, recentemente il governo Meloni ha programmato l’abolizione del reddito di cittadinanza nel 2024: uno strumento che ha salvato dalla povertà 1 milione di persone. Cosa possono dirci questi dati sullo stato della classe lavoratrice e in generale sul mondo del lavoro in Italia?
Marta Fana nel suo saggio “Basta salari da fame” (Laterza, 2019) parla della struttura dell’occupazione nel Bel Paese. La ricercatrice osserva che dal 1993 al 2016 si può rilevare un movimento di risorse (capitale, lavoro) dal settore manufatturiero e delle costruzioni (settori tradizionalmente occupati dalla classe operaia) verso il settore dei servizi. Rispetto alla media europea, la nostra economia si è spostata aggressivamente verso il terziario, per sua natura a basso valore aggiunto e bassa produttività, mentre in Europa i salari crescono sia nel settore manufatturiero che nei servizi. La nostra classe politica ed imprenditoriale ha deciso consciamente di spostarsi in settori a produttività più bassa nei quali i profitti si possono fare sulle spalle dei bassi salari. Questa è anche una parte della spiegazione per cui la Total Factor Productivity Italiana è ferma o sta calando da oramai un decennio.


Una delle risposte negli ultimi anni alla stagnante produttività italiana è stata l’introduzione della legge 183 del 2014 da parte del governo Renzi, anche chiamata “Jobs Act”. La legge ha introdotto un nuovo tipo di contratto, il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, insieme a un sussidio nella forma di sgravi fiscali sui contributi per le spese sociali del lavoratore se il contratto di quest’ultimo viene trasformato in un contratto a tempo indeterminato. Le imprese italiane erano autorizzate ad assumere solamente un massimo del 20% di lavoratori part-time o a contratto a tempo determinato, mentre con il jobs act questa limitazione venne abrogata, ultimando un processo di liberalizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro iniziato con il decreto di San Valentino fatto dall’allora governo Craxi. Gli effetti di questa legge sul mercato del lavoro italiano non hanno avuto l’effetto sperato dai suoi proponenti, infatti la riforma non è stata in grado di risolvere le dinamiche strutturali che affliggono il mercato del lavoro italiano; vale a dire bassa produttività, divario Sud-Nord e bassa rappresentazione femminile nella forza lavoro.
Il trend della liberalizzazione del mercato del lavoro è spesso accompagnato dal progressivo smantellamento delle EPL (“Employment Protection Legislation”), la sostituzione della trattazione collettiva nazionale con quella aziendale (e quindi di decentralizzazione della contrattazione che permette contratti collettivi con assicurazioni anche inferiori a quelle stabilite a livello nazionale). Tutte queste dinamiche rendono più semplice sostituire i lavoratori occupati in posizioni “entry level”, tuttavia secondo una serie di studi questa flessibilità estrema è in realtà correlata negativamente con l’aumento della produttività.
Inoltre qui si dà per scontato che gli aumenti salariali si possano ottenere solo attraverso gli aumenti di produttività, ma non è così, la storia del nostro paese ce lo dimostra, durante gli anni 60 e 70 la classe operaia riuscì a “strappare” agli imprenditori aumenti salariali del 16,8% in termini nominali nel 1963 in seguito alle prime lotte salariali e nel periodo dal 1970 al 1974 addirittura aumenti salariali reali del 21,8%, a scapito dei loro margini di profitto. Quindi la relazione fra produttività e salario non è per niente scontata come ci dimostrano anche i dati americani di Anwhar Shaikh dal suo libro “Capitalism, Competition, Crisis, Conflict”.

Contratti a tempo determinato
Anche sui giornali mainstream come Repubblica e il Corriere della Sera si è parlato di un fenomeno noto come precariato, ovvero che una buona parte della popolazione italiana sia impiegata con contratti a tempo determinato e lavori part-time. La fondazione Di Vittorio, usando dati ISTAT, traccia un trend impressionante, dal 2004 al 2022 c’è stato un aumento consistente della quota di occupati a tempo determinato sulla popolazione lavorativa totale, specificatamente dall’ 11% nel 2004 al 16% nel terzo trimestre del 2022. In termini assoluti siamo passati da 2,3 milioni di unità nel 2008 a 3 milioni. Il part-time involontario ha pure visto una crescita nel periodo dal 2008 al 2020 di 1,4 milioni di unità (da1,3 a 2,7 milioni in termini assoluti, in termini percentuali si passa dal 40% al 64,7%).
I lavoratori impiegati con contratti a tempo determinato inoltre vengono retribuiti mediamente quasi 2 euro all’ora di meno rispetto ai loro colleghi con contratti a tempo indeterminato.
Anche questa dinamica dell’aumento della percentuali di occupati a tempo determinato è il segno di una mancanza di una opposizione forte da parte della sinistra italiana, che anzi si è fatta promotrice di questi cambiamenti. Tutto ciò inoltre accade in un frangente storico in cui il tasso di sindacalizzazione sta retrocedendo da anni in tutto il mondo, sebbene in Italia la situazione sia parzialmente diversa dove il tasso di sindacalizzazione ha tenuto di più rispetto agli altri paesi dell’area OCSE, passando dal 48 al 34,4 nel periodo dal 1975 al 2018. Una diminuzione del tasso di sindacalizzazione significa meno forza contrattuale nelle mani dei lavoratori e meno capacità di poter spingere per aumenti salariali.
La situazione delle donne
Esiste anche una questione di genere quando si parla di salari in Italia, sebbene il gender wage gap sia inferiore in Italia rispetto agli altri paesi europei, le donne lavorano meno ore a settimana rispetto agli uomini (32 rispetto a 40) e sono meno rappresentate nella forza lavoro. Il tasso d’occupazione femminile era al 49,4% mentre il tasso d’occupazione maschile era al 67,1% nel 2021. Un’ altra dinamica tipicamente femminile è la prevalenza di alte percentuali di lavoratrici impiegate con contratti part-time, circa il 33% delle lavoratrici è di fatto impiegata con questo tipo di contratto mentre solo il 9% degli uomini lo è.

Inoltre il 60% di queste lavoratrici svolge part-time involontario, ovvero vorrebbero essere occupate con contratti a tempo pieno ma non ne hanno trovato uno. Nel settore pubblico invece le quote di occupati a tempo parziale sono molto inferiori, anche se qui si nota comunque la dinamica di genere in cui le donne svolgono proporzionalmente più mansioni con contratti part-time. In Europa la situazione non è molto diversa: le donne e uomini svolgono lavori part-time in proporzioni molto simili (30% per le donne e 8% per gli uomini). In generale la situazione salariale delle donne mostra tipiche dinamiche di genere in cui gli uomini tendenzialmente vengono retribuiti di più, infatti il 41% delle lavoratrici nel 2017 era in condizioni di “in work poverty” contro il 25,4% dei lavoratori.
Conclusione
In questo articolo si è cercato di delineare la situazione generale del mercato del lavoro italiano, facendo luce su questo aspetto che nelle campagne elettorali e nei programmi politici delle scorse elezioni nazionali non ha ricevuto l’attenzione necessaria, quando invece si tratta di un aspetto fondamentale della vita del paese. Ci si augura che le sollecitazioni siano utili a sensibilizzare il lettore a doverose riflessioni sullo stato dei salari in Italia.
A cura di Lorenzo Marconi