Questo articolo è idealmente un seguito del mio precedente sulla condizione salariale in Italia. Cercherò, in questa sede, di mostrare gli effetti di una ipotetica introduzione di un salario minimo nel nostro Paese, alla luce anche della direttiva dell’Unione Europea sull’introduzione di un salario minimo adeguato.
La situazione oggi
Attualmente i contratti collettivi nazionali coprono più del 90% dei lavoratori italiani, tuttavia questo strumento si sta dimostrando sempre più inadeguato per contrastare la cosiddetta “in-work poverty” anche detto lavoro povero. Michele Bavaro mostra in questo report dell’INPS come un terzo dei lavoratori italiani riceva un salario inferiore al 60% della retribuzione mediana. La povertà assoluta e relativa in Italia è ai suoi massimi storici.
La copertura praticamente totale offerta dai contratti collettivi nazionali non si traduce in salari adeguati, ma perché? Innanzitutto i contratti collettivi non sono sempre applicati e, secondo questa analisi di bollettino Adapt, esiste una grande presenza di irregolari specialmente nel settore agricolo e domestico. Un’altra componente, a mio parere incorrettamente sottovalutata dal bollettino, è la presenza di cosiddetti contratti pirata e la concorrenza al ribasso dove sigle sindacali non rappresentative propongono contratti che svalutano il valore del lavoro. A ciò si aggiunge la circostanza che il 62% dei contratti collettivi è scaduto e non è stato ancora rinnovato.
Effetti del salario minimo in altri paesi
Una delle argomentazioni più comuni contro l’introduzione del salario minimo è che mettendo un minimo salariale fisso per legge, le aziende sarebbero costrette a licenziare i loro lavoratori per via dell’aumento del prezzo del lavoro, posizione presa anche dalla premier Giorgia Meloni.
Tuttavia, la recente letteratura empirica sul tema del salario minimo racconta un’altra storia.
In Germania, uno studio del 2019 di Dustmann mostra come l’aumento del salario minimo abbia avuto effetti benefici sulla produttività dell’economia attraverso la ricollocazione dei lavoratori da imprese meno produttive a più produttive senza che questo abbia causato aumenti nel tasso di disoccupazione. Tra l’altro una parte significativa degli aumenti salariali deriva proprio dall’ ”upgrading” di questi lavoratori, ovvero il passaggio da imprese meno produttive a più produttive. Sempre parlando di relazione fra occupazione e salario minimo, il premio Nobel David Card assieme a Alan Krueger, mostra come nell’industria del fast food americana nello stato del New Jersey, l’aumento del salario minimo non abbia portato a una diminuzione dell’occupazione, anzi si sarebbe verificato il contrario. Questo avvenimento viene spiegato dalla natura monopsonistica delle imprese in quell’area. Una azienda monopsonistica è il corrispettivo di una impresa monopolistica applicato alla sfera degli acquisti. Mentre una azienda a regime monopolistico è l’unica venditrice di merci in una singola area geografica o mercato, una azienda a regime monopsonistico è l’unica azienda che riesce a comprare; in questo modo l’azienda è in grado di sfruttare la propria posizione di compratore unico in modo da poter abbassare i salari ben al di sotto del livello concorrenziale evitando in questo modo di investire in tecnologie salva lavoro e di espandersi, come mostrato da questo studio del mercato del lavoro tedesco. Un salario minimo potrebbe riequilibrare il livello salariale attirando persone disoccupate in cerca di salari più alti, facendo cadere il regime monopsonistico e incentivare aziende più virtuose che investono effettivamente nei loro lavoratori e nelle loro imprese, invece che utilizzare la loro posizione di dominanza per campare di rendita sui bassi salari.
Il salario minimo inoltre ha vari effetti positivi per quanto riguarda la riduzione delle disuguaglianze. Attraverso la creazione di minimi salariali fissati per legge si riducono le disuguaglianze interne alla forza lavoro, tuttavia ciò avviene soltanto se i minimi salariali sono fissati a una percentuale del reddito mediano sufficiente, in questo caso il 60%. Questa condizione è applicabile tuttavia solo a pochi paesi all’interno dell’unione europea e dell’area OCSE, come mostra questo grafico tratto dal libro di Marta Fana Basta salari da fame.

Che fare in Italia?
In Italia c’è stato molto recentemente un grande dibattito sul tema del salario minimo, dopo quasi sessant’anni di silenzio. Subito si è stabilita una dicotomia fra contrattazione collettiva e introduzione di una salario minimo legale, come se questi due strumenti fossero in contrapposizione fra di loro, senza contare la varietà di modi in cui il salario minimo può essere stabilito. Questi due strumenti non sono in contraddizione, soprattutto se usati come strumenti da una classe lavoratrice combattiva, la quale potrebbe usare i salari minimi per comprimere i salari e salvaguardare l’interesse dell’intera classe. Tuttavia questo non è la situazione oggi in Italia; dagli anni settanta fino ad oggi le sigle confederali più importanti sono state sulla difensiva come mostra anche il comportamento della CISL e UIL, le quali appoggiarono l’abolizione della scala mobile nel 1992 come strumento anti-inflazionistico e più recentemente la loro opposizione all’introduzione di una salario minimo legale.
Recentemente solo l’USB e la CGIL (anche se con riserve) si sono mobilitate per l’introduzione del salario minimo e le proposte dei partiti d’opposizione sono state bocciate dall’attuale governo Meloni. La segretaria del PD Elly Schlein ha reso il tema del salario minimo uno dei suoi cavalli di battaglia.
Bisognerà vedere in futuro che cosa succederà se la svolta a sinistra del PD se la nuova segreteria riuscirà a risolvere questo dilemma facendo opposizione e forse vincendo le prossime elezioni nel 2027 e se il movimento sindacale italiano riuscirà a riguadagnare la propria forza per ottenere nuove concessioni e l’agognato salario minimo, vincendo contro l’opposizione confindustriale e della destra al potere.
A cura di Lorenzo Marconi